venerdì 8 giugno 2018

IL TEMA DEL SACRIFICIO: DAGLI ALTARI ALLE POZZANGHERE




Rubrica: Uomini e dei. n. 10

UNA VITA DI SACRIFICI 

    Come mai per secoli, sino ai nostri genitori (o, per i più giovani, sino ai nostri nonni), “sacrificarsi” è stato un valore, un merito, e negli ultimi decenni viene considerato un atteggiamento da stupidi, se non da masochisti?  Questo uno degli interrogativi emersi nella Due-giorni (tra Marsala e l’isola di Mozia) organizzata dalla sezione meridionale del CIPA (Centro italiano di psicologia analitica) tra il 25 e il 26 maggio 2018. 
   In effetti il tema del “sacrificio” ha conosciuto un notevole consenso in tutte le culture antiche: frutti e fiori, ma anche animali non-umani e perfino umani, venivano offerti agli dei. Alcuni casi sono diventati esemplari, proverbiali: Agamennone che sacrifica agli dei la figlia Ifigenia o Abramo che arriva a un pelo dal sacrificare il figlio unigenito Isacco. 
     Con il cristianesimo il tema del sacrificio subisce un passaggio paradossale: per un verso viene messo in discussione radicale, per un altro viene esaltato in misura  insuperabile. Significativa la  Lettera agli Ebrei: con Gesù i sacrifici antichi vengono superati, ma la ragione è che egli è il “pontefice” che ha offerto una volta e per sempre se stesso. In questo testo inserito nel Secondo Testamento Gesù è ancora distinto chiaramente da Dio: man mano che la chiesa lo riterrà sempre più “sostanzialmente” divino  - Dio da Dio, divino come Dio Padre – il seme della theologia crucis qui  piantato diventerà un albero grandioso. Perché Dio avrebbe sacrificato se stesso o – per così dire – un Altro se stesso? 
     Dall’inizio del secondo millennio in poi si diffonde come ortodossa una bizzarra tesi di sant’Anselmo d’Aosta: la  morte di Gesù è un  sacrificio voluto dal Padre per riparare il danno infinito del “peccato originale” mediante la sostituzione del proprio Figlio al posto dei veri colpevoli, gli esseri umani. D’altronde, essendo la gravità di un’offesa misurabile sulla base della dignità dell’offeso, chi altri se non un Dio avrebbe potuto rimediare all’offesa infinita nei confronti di Dio?
    Sarebbe troppo lungo soffermarsi sulle conseguenze di questa lettura della croce nella mentalità e nella psicologia – conscia e inconscia – di intere generazioni cristiane (cattoliche, ortodosse, anglicane, protestanti): sensi di colpa; accettazione masochistica del dolore nella propria esistenza (implicante, per esempio, diffidenza nei confronti delle cure palliative); pulsioni sadiche camuffate da amore del prossimo  (“Bruciamo sul rogo il tuo corpo vivo per purificare la tua anima”)…Vorrei solo evidenziare come questa idolatria del sacrificio si è estesa ben al di là dei confini ecclesiali ed è stata, per così dire, secolarizzata da ideologie molto lontane dal cristianesimo. Ancora qualche anno fa aver vissuto una vita di “sacrifici” è stato considerato un vanto nei necrologi di padri e madri esemplari. 
    Eppure nell’orizzonte socio-culturale contemporaneo la categoria “sacrificio” non gode di buona fama. Siamo diventati tutti meno coraggiosi e più egoisti? O non ci sono state delle acquisizioni antropologico-filosofiche e teologiche che ci hanno resi più criticamente vigili? 
   Propenderei per questa seconda ipotesi. 
   Infatti, da una parte, la stessa etimologia del vocabolo – sacrum facere, rendere sacro ciò che di per sé non lo sarebbe - evoca un processo affascinante: nel panificio si fabbrica pane, nel pastificio si fabbrica pasta; il sacrificio è il “luogo” in cui si fabbrica il sacro. Dall’altra parte, però, il sacrificio- la produzione del sacro – è intriso di violenza: non è un caso che in latino sacrum significa “sacro” (come opposto a profano) ma anche “esecrando” (nel senso di odioso). L’antropologo René Girard ha meditato a lungo su questa natura violenta del sacro: non per caso un suo saggio fondamentale si intitola La violenza e il sacro
    Anche la teologia è diventata sempre più lucida nel denunziare la teologia della riparazione per sostituzione alla sant’Anselmo d’Aosta. Scrive, ad esempio, nel suo testamento teologico, a proposito della “mistica del patire”, uno dei biblisti italiani più apprezzati dalla comunità scientifica  (e, dunque, più  perseguitato dalle gerarchie vaticane) : “La reinterpretazione in senso sacrificale della morte di Gesù in croce ha introdotto nella mentalità popolare e ufficiale una elevazione, quasi una sacralizzazione, della sofferenza, vista più come un bene, un favore, una grazia, che una carenza, un male; ma Gesù non sembra dello stesso avviso. Egli si affretta a dare la risposta più ovvia ma che non sempre i suoi vicini e lontani discepoli sembrano essere riusciti a capire o ad accettare. Essi infatti si sono lasciati prendere più dalla mistica o dal mito del sacrificio, dell’oblazione all’Altissimo, del valore espiatorio della sofferenza, perciò di ogni dolore, più che dalla testimonianza perentoria, inequivocabile del loro maestro. Gesù non ha mai esortato nessun malato che si è rivolto a lui a rassegnarsi alla sua situazione di disagio, di condanna, ma l’ha aiutato a venirne fuori, a liberarsene. Non ha pensato a ‘santificare’ il dolore” (Ortensio da Spinetoli, L’inutile fardello, p. 41) 
   Nell’attuale contesto di delegittimazione del sacrificio come tassello di vita esemplare ognuno di noi è chiamato a prendere posizione. 
    Un primo orientamento  è di reagire alla inaccettabile enfatizzazione della dimensione sacrificale dell’esistenza propendendo per la mera cancellazione di questa categoria antropologica.  E’ opportuna la transizione da un regime di imperialismo del sacro a un regime di secolarizzazione totale in cui non ci sia più nulla di sacrum facere, di rendere sacro (o di riconoscere come tale)? 
      Personalmente propendo a ritenere che una società che avesse cancellato ogni traccia di sacrificio si consegnerebbe a una sorta di nichilismo edonistico autolesionistico. Infatti: chi non rinunzia a qualcosa nell’immediato prepara, alla distanza, danni a se stesso e agli altri.  Lo hanno capito Peppino Impastato e don Pino Puglisi, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino…e le migliaia di donne e uomini che, nell’anonimato quotidiano, affrontano minacce, ostracismi, rinunzie, non certo per affezione al dolore in sé, bensì in vista di “valori” superiori come la verità, la giustizia e la libertà.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com


Fonte:

http://livesicilia.it/2018/06/03/quanto-vale-il-sacrificio-possibili-soluzioni_966273/

1 commento:

Unknown ha detto...

Bellissima riflessione, Augusto. Proprio in questo periodo mi interrogavo sullo stesso tema. Certamente Gesù è il "vero medico" che, curando lo spirito, risana anche i corpi. Così dovrebbe essere anche il filosofo, se segue il modello socratico. Sarà poi un caso che tra le sette ebraiche dei tempi di Cristo Giuseppe Flavio (o era Filone di Alessandria?) evoca i sedicenti "Terapeuti"? Eppure, non si può negare il fascino, forse sinistro, che l'idea del sacrificio continua a suscitare, forse perché paradossale, antimoderna, "arcaica", quasi esotica. Mi vengono in mente le considerazioni di Hillman, ma sarebbe forse meglio risalire a Jung, Steiner e simili, su Pan, puer aeternus, su pratiche orgiastiche, addirittura sulla prostituzione sacra, insomma sull'Ombra, il Dionisiaco ecc. Il Male, Satana o, più laicamente, la Morte sono l'altra faccia della Vita, del Bene, come sapeva Eraclito. Forse non si tratta di compiacersi di una vita di sacrifici, ma, se tocca (come prima o poi tocca a tutti) di soffrire, di stare male o di essere preda di un male sottile, interiore (il peccato, la tentazione del nulla, la pulsione distruttiva, sadomasochistica ecc.), prova a "offrire" al Tutto che noi stessi siamo questo nostro lato oscuro, riconoscerlo e portarlo alla luce del Sole, scommettere che abbia un senso. Sotto questo profilo non mi ha mai veramente convinto il tuo amico Vito Mancuso quando nega il peccato originale o vorrebbe scaricare sulla Natura (per esonerarne Dio) la "colpa" del male innocente. Significa abbandonare chi soffre della disgrazia di avere avuto magari un bambino con gravi disturbi al non senso, al puro caso, quando credo che chi vive questo tipo di drammi abbia un disperato bisogno di credere che il male che patisce serva
a qualcosa e abbia un senso per quanto esso gli appaia ora del tutto imperscrutabile. Un saluto