domenica 9 dicembre 2018

IL MODELLO DELLA "RECIPROCITA' ": NECESSARIO QUANTO INSUFFICIENTE

9.12.2018

IL PARADIGMA DELLA “RECIPROCITA”: RILEVANZA E LIMITI

Nella vita di coppia, come nelle relazioni amicali, ma anche nei rapporti socio-economici, si ritiene basilare il rispetto della “reciprocità”. Che si tratti di una categoria necessaria come condizione minimale dei rapporti interpersonali è evidente: “Io ti cedo un cesto di frutta e in cambio tu mi cedi un cestino di uova”. Perfino il dono, secondo i noti studi di  Marcel Mauss, implica l’attesa (tacita) di un ricambio: “Io ti regalo una coperta per il matrimonio di tua figlia e tu mi regali un servizio di piatti per il matrimonio di mio figlio…”. Percepiamo come palese ingiustizia cedere la frutta o regalare la coperta senza ottenere, né subito né in prospettiva, alcunché in cambio. In un testo del I secolo dell’era volgare questa idea di reciprocità sembra solennemente ribadita e approvata: “Tutte le cose dunque che voi volete che gli uomini facciano a voi, fatele anche voi: perché questa è la Legge e i profeti” (Mt 7, 12). E’ una massima talmente universale che è stata definita “aurea”. Perfino il detto biblico “Occhio per occhio, dente per dente” – a differenza di quanto comunemente si suppone – è un invito non alla vendetta ma alla giustizia secondo il modello della reciprocità: se uno ti ha tolto un occhio, tu gliene puoi togliere uno, non due; e se uno ti ha rotto un dente con un pugno, tu devi limitarti a rompergliene uno solo, non tutta la dentatura.
     La filosofia occidentale ha sottolineato varie volte la preziosità di questo paradigma, fornendo una fondazione ontologica e antropologica della reciprocità. Mi limito a tre passaggi: Hegel, Feuerbach e Buber. Per Hegel la storia dell’umanità, che coincide con la storia dell’autoconsapevolezza di Dio stesso, conosce un momento decisivo quando passa dalla coscienza all’autocoscienza. E la coscienza di sé è possibile solo nell’incontro con l’altro: io riconosco me come soggetto cosciente nella misura in cui l’altro riconosce me come tale. Questa la radice del desiderio intenso di “essere riconosciuti”, ma tale desiderio può essere soddisfatto solo nella reciprocità: tu riconosci me come soggetto cosciente solo se io riconosco te come tale. Hegel è interessato all’esito tragico di questa tensione, esito che si registra quando uno dei due spezza la reciprocità, vuole essere trattato come soggetto cosciente (padrone) ma tratta l’altro come cosa (servo). Feuerbach e Buber, invece, sono interessati all’esito progressista, evolutivo:  grazie al tu, l’io diventa in atto ciò che – isolato - resterebbe in potenza. Questa reciprocità è amore (Feuerbach) o dialogo (Buber). Per tutti una citazione soltanto: “La crescita interiore dell’io non si compie, come oggi si tende a credere, nel rapporto dell’uomo con se stesso, ma in quello tra l’uno e l’altro, tra gli uomini quindi, specialmente nella reciprocità del rendersi presenza – nel rendere presenza un altro io e sapersi resi presenza nel proprio io dall’altro – che fa tutt’uno con la reciprocità dell’accettazione, dell’affermazione, della conferma” (M. Buber, Distanza originaria e relazione in Idem, Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Milano 1993, p. 292). 
Forse non è superfluo ricordare che l’antropologia di Buber è stata anche richiamata come fondamento di quelle teorie liberal-socialiste, o socialiste liberali, o socialdemocratiche, che hanno provato a mediare fra l’individualismo monadico di certo liberalismo e il collettivismo omologante di certo social-comunismo.  
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   Come ogni principio radicato e condiviso, anche questo è esposto al rischio di una enfatizzazione retorica. Consideriamone dunque, laicamente, alcuni aspetti problematici: non per inficiarne la validità, ma per evitarne la banalizzazione.
    Una prima considerazione riguarda la difficoltà, in tante circostanze, di attuare con buon senso questo paradigma. Un gesto mi è gradito solo se – preliminarmente – l’altro si è “messo nei miei panni” e, a mia volta, potrò ricambiarlo adeguatamente solo se mi “metto nei panni” dell’altro. Certe madri di famiglia meridionali insistono inopportunamente affinché l’ospite di turno accetti a tavola anche la decima portata solo perché non riescono a entrare nella mentalità e nei gusti della persona invitata; così come questi, nel momento di scegliere come omaggio alla padrona di casa una raccolta di poesie in francese cinquecentesco, potrebbe non essere riuscito a entrare nell’ottica e nello stile di vita della destinataria del dono. Ma questo “entrare nei panni dell’altro” è, spesso,  impraticabile (o difficilmente praticabile). Esemplifico: molti miei coetanei hanno lasciato l’Occidente per indossare i panni dell’Oriente. Ci sono riusciti? Dal punto di vista statistico-sociologico certamente no: la stragrande maggioranza, dopo periodi più o meno lunghi, è tornata in patria. Ma anche dal punto di vista – come dire ? – qualitativo l’operazione non è riuscita che rarissimamente: l’occidentale che fa l’orientale resta, comunque, un occidentale. Ci sono delle categorie mentali talmente introiettate sin dal seno materno che è illusorio spogliarsene.
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    Ma ammettiamo che ci si possa effettivamente “mettere nei panni dell’altro” o, addirittura, “scambiarsi i panni”. Mi chiederei: non ci sono casi in cui questi gesti sono dannosi? Che “mettersi nei panni degli altri” spogliandosi totalmente dei propri non sia conveniente (parlo dal punto di vista non meramente utilitaristico dell’individuo, ma complessivo dello sviluppo dell’umanità) lo attestano personaggi di elevata statura intellettuale e morale come Bede Griffiths che si sono sì trasferiti in India; hanno imparato a relativizzare il punto di vista occidentale; hanno cercato di imparare dalle sapienze induiste e buddhiste…ma non hanno ritenuto opportuno gettare alle ortiche la saggezza greca né tanto meno la mistica ebraico-cristiano-islamica. Griffiths  ha auspicato, piuttosto,  il “matrimonio” fra Oriente e Occidente e, come sappiamo bene , un matrimonio riesce quando nessuno dei due rinunzia alla propria identità, quando la smussa delle proprie asprezze e la lascia integrare dalla relazione con la identità dell’altro. 
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      Ci sono casi, poi, in cui la reciprocità risulta – se non dannosa -  inutile. Se io ti offro un panino e tu mi ricambi, qui ed ora, con un panino identico, dal punto di vista ‘oggettivo’, ‘materiale’, che cosa è cambiato? Non potevamo tenerci ognuno il nostro panino? Se io mi metto nei tuoi panni, e tu nei miei, ci ritroviamo di nuovo entrambi in panni differenti, anche se scambiati. Una reciprocità perfetta sembrerebbe implicare che, se io mi metto nei tuoi panni di caporale e tu nei miei panni di generale, lasciamo invariata la differenza gerarchica tra chi sta sopra e chi sta sotto. Che non si tratti di ipotesi paradossali e del tutto astratte lo attesta la dialettica servo/padrone enunciata da Hegel e ripresa da Marx: se il servo, a forza di servire, diventa padrone del suo padrone, la relazione fra chi domina e chi è dominato resta la stessa. Cambiano solo i protagonisti della relazione. Già l’etimologia del vocabolo suggerisce la possibilità che, alla fin dei conti, la situazione di arrivo risulti pari a quella di partenza: reciprocità è, infatti, un movimento di andata e di ritorno (reciprŏcus : «che va e viene, che fluisce e rifluisce», composto da  recus «che sta indietro», e procus , «che sta innanzi»). 
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Dopo aver escluso i casi in cui il modello della reciprocità (“trattare l’altro come egli tratta noi”) risulti o impraticabile o dannoso o superfluo, ci troviamo davanti a un modello – come si accennava all’inizio – socialmente irrinunciabile. Ma anche in questo caso non dovremmo dimenticare che si tratta di un modello minimale, perfettibile. In ultima analisi, insufficiente per promuovere un progresso profondo e duraturo nell’evoluzione umana. Abbiamo evocato il detto: “Tutte le cose dunque che voi volete che gli uomini facciano a voi, fatele anche voi”. Eppure nel medesimo testo si legge: “Voi avete udito che fu detto: Occhio per occhio, dente per dente. Ma io vi dico: Non contrastare il  malvagio; anzi, se uno ti percuote sula guancia destra, porgigli anche l’altra; e a chi vuole litigare con te e prenderti la tunica, lasciagli anche il mantello. (…) Benedite coloro che vi maledicono, fate del bene a quelli che vi odiano, e pregate per quelli che vi maltrattano e vi perseguitano” (5, 38 – 44). Non c’è dubbio che qui viene contestato il principio della reciprocità in nome di un criterio diverso: non trattare l’altro come egli tratta te. Possiamo liquidare questi – e simili inviti – ritenendoli provenienti da una fonte soprannaturale e destinati a creature eccezionali che prima o poi finiamo col venerare come santi. Ma è proprio così che dobbiamo – o per lo meno possiamo – interpretare le cose?
      Propenderei per una risposta negativa. Innanzitutto perché non è vero che siamo davanti a inviti unici, di origine divina. Tutte le letterature sapienziali (greca, latina, buddhista…per non parlate dell’ebraismo precedente e contemporaneo di Cristo) sono ricche di inviti simili, nella certezza – per dirla con Socrate – che è molto meglio subire un’ingiustizia anziché farla.
      Inoltre propenderei per una risposta negativa perché non sembra che Gesù di Nazaret qui si stia rivolgendo a persone eroiche. Il tono è di chi espone verità evidenti. E a me pare che, dopo le lezioni di Gandhi, di Capitini, di Martin Luther King, questo invito a non fermarsi alla logica della mera reciprocità – “ti ripago con la stessa moneta” – abbia acquistato una forze euristica e strategica persino nei rapporti internazionali. Quante volte sentiamo dire nel dibattito pubblico che non possiamo dare agli islamici la libertà di culto dal momento che i paesi islamici non la garantiscono a tutti i cristiani? Ora, a parte che solo alcuni paesi islamici hanno norme così restrittive, cosa penserebbe Gesù di questo argomento? Ognuno di noi è responsabile, come individuo e come collettività, dell’evoluzione complessiva dell’umanità. Aiutare alcune frange dell’islamismo a crescere nella democrazia lo si può non tempestandole di bombe dagli aerei, ma testimoniando con i fatti che la democrazia è tanto forte da non temere i suoi avversari. Uno Stato laico non può trattare laicamente solo i laici, ma anche i fanatici e i dogmatici: solo così può convertirli alla laicità. Forse siamo davanti a un altro paradosso: uno Stato può salvaguardare la propria laicità quando, stabiliti certi argini indiscutibili di convivenza civile, per il resto deve comportarsi…evangelicamente. Deve lasciare che i musulmani edifichino le loro moschee non perché è lecito ai cristiani fare altrettanto in tutti i paesi a maggioranza islamica, ma proprio perché non lo è. Insomma, il criterio della reciprocità – che in molti casi salvaguarda la giustizia elementare – in alcuni casi va trasceso proprio in nome di una civiltà più evoluta.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

PS: Vi prego di leggere, tra i commenti sottostanti,  la precisazione-correzione che mi è giunta dal carissimo amico  Alberto Cacopardo.

2 commenti:

Alberto Cacopardo ha detto...

Una piccola obiezione, che non incide sull'argomentazione perché riguarda soltanto un esempio: da quando nel maggio di quest'anno il temibile governo dell'Arabia Saudita ha stretto un accordo in merito col Vaticano, non c'è più un solo paese musulmano al mondo che vieti le chiese cristiane. Certe leggende sono molto nocive e non vanno accreditate. Storicamente, saprai bene che i musulmani sono stati assai più tolleranti verso i cristiani che questi verso di loro. Trascendendo la reciprocità, furono forse in questo più cristiani dei nostri padri... Un caro saluto

Emanuele ha detto...

Secondo me la reciprocità è un concetto politicamente di destra, e infatti si nota una certa difficoltà a trattare l'argomento in modo distaccato e lineare.