sabato 2 maggio 2020

MA DIO SOPRAVVIVERA' A QUESTA PANDEMIA ?


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1.5.2020

UN EFFETTO COLLATERALE DELLA PANDEMIA: IL COLPO DI CODA DELLA RELIGIONE

Passata le tempesta, tra i mille bilanci inevitabili non potrà mancare una riflessione teologica. O meglio: socio-antropologica e filosofica sul dibattito teologico che è già in corso in questi mesi di pandemia. Il papa che chiede a Dio, nella piazza deserta antistante san Pietro, di fermare la diffusione del virus, o – a livelli infinitamente più bassi – un leader politico di destra (smaccatamente edonista) che recita in diretta l’ Eterno riposo con una conduttrice televisiva, suscitano le reazioni più opposte (e, in una certa misura, imprevedibili): da una parte, voci ‘laiche’ esprimono ammirazione per il gesto drammatico di un vecchio prete barcollante che, davanti al mondo, sotto una implacabile pioggia, si rivolge al suo Dio; dall’altra, non pochi teologi (anche cattolici) gridano allo scandalo per ciò che la preghiera del papa sottintende (Dio può fermare il morbo: ma allora perché prima lo permette?) e, ancor più, per la promessa medievale dell’indulgenza plenaria ai credenti che avessero voluto associarsi alla sua supplica pubblica.
 Che significato custodiscono, e in parte rivelano, questi episodi (e molti altri simili in aree ebraiche e islamiche) ?
 Molto in sintesi, direi che rappresentano il tentativo – disperato – della religione tradizionale, istituzionale, di reagire al proprio tramonto irreversibile. In fasi di sofferenza noi mortali, sia come singoli individui che come collettività, siamo disposti a tutto pur di alleviare l’angoscia della malattia e della morte: anche a mettere fra parentesi le nostre esigenze critiche, solitamente vive. E’ ovvio, dunque, che in buona fede (papa Francesco) o in malafede (leader istrioni innominabili) approfittino di queste faglie per riproporre messaggi, credenze, simboli, gesti…appartenenti a una paradigma teologico-culturale in agonia. Ma proprio questi anacronistici tentativi (patetici o tattici) -  mostrando platealmente la loro inefficacia alle persone di buon senso (dunque non proprio a tutte: ci sarà sempre qualcuno che attribuirà l’eclisse inevitabile del covid-19 alla Madonnina del Duomo di Milano) - finiranno con il rivelarsi degli autogoal.
 Possiamo concludere, dunque, con la facile previsione che – dopo la pandemia del coronavirus – si completerà l’estinzione epocale della “religione”, inutilmente soccorsa con i respiratori artificiali della paura planetaria? Sì, ma con molti “ma”.

Eclissi della religione, emersione della religiosità
  Proprio nei giorni dell’eremitaggio forzato ho finalmente potuto leggere uno dei tanti libri in lista di attesa sul mio tavolo: Le metamorfosi di Dio. La nuova spiritualità occidentale (Garzanti, Milano 2005), a firma di Frédéric Lenoir, originariamente edito in Francia nel 2003. In esso si racconta, senza eufemismi, la gravità della crisi che attraversano le grandi religioni mondiali (in particolare le tre religioni del Libro): sia dal punto di vista quantitativo (cresce il numero dei cittadini che si dichiarano atei o agnostici o comunque non-praticanti) sia, ancor più, dal punto di vista qualitativo (chi continua a dirsi ebreo, cristiano o musulmano non ritiene di poter aderire toto corde alla propria confessione religiosa, ma si riserva il diritto di condividere alcune credenze e alcune norme di comportamento come di rifiutarne altre, tradizionalmente ritenute irrinunciabili). 
Tuttavia Lenoir si chiede se le religioni ufficiali oggi in crisi di consensi siano state sempre le uniche protagoniste della scena pubblica. E risponde negativamente. Infatti, in parallelo con le versioni istituzionali maggioritarie, si sono registrate delle correnti religiose alternative che, nonostante le persecuzioni solitamente feroci, si sono più o meno sotterraneamente perpetuate negli ultimi venti secoli. Nel volume le esemplificazioni via via evocate sono innumerevoli: l’ebraismo ha conosciuto il cabalismo, l’islamismo ha conosciuto il sufismo, il cristianesimo ha conosciuto movimenti ereticali di ogni genere. Per limitarci alla storia cristiana, e agli ultimi sette-otto secoli, l’autore cita (fra moltissimi altri): Alberto Magno, “attraverso il quale, nel medioevo prima dell’averroismo, l’occultato si congiunge con la filosofia ufficiale” (così Gilbert Durand citato a p. 252); Meister Eckhart, Tauler, Suso; Ruggero Bacone, Nicolas Flamel, Nicola Cusano, Blaise de Vigenére, Basile Valentino, Patricius Patrizi,Giorgio da Venezia, Egidio da Viterbo, Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Valentin Weigel, Kunrath, Robert Fludd, Angelus Silesius, Paracelso, Cornelius Agrippa, Giordano Bruno; Goethe, Novalis, Schubert, Saint-Martin, Hamann, Martines de Pasqually, Swedenborg, Erkartsthausen, Etteila, Barchusen, Ashmole, Gaffarel, Morin de Villefranche, Blacke; Nerval, Ballanche Bonald, Maistre, Baader,  Schlegel …sino ai nostri giorni, in cui troviamo personaggi di enorme influenza quali Mircea Eliade, Gaston Bachelard, Carl Gustav Jung, René Guénon, Henry Corbin, Eugen Drewermann e così via.
  Allora: è corretto affermare che la religione è al tramonto? Indubbiamente. Ma a patto di aggiungere subito che la sua eclissi corrisponde all’emergere in piena luce (soprattutto, si potrebbe precisare, grazie alle garanzie di libertà di opinione offerte dalle istituzioni liberal-democratiche) di forme di religiosità a lungo, e invano, represse: “è difficile non chiamare ‘religiose’ le intime esperienze del sacro dei nostri contemporanei, anche se intendono collocarsi al di fuori del quadro di una religione” (p. 191).
    Ho trovato molto acuto – e molto interessante – il tentativo di Lenoir di andare oltre la fenomenologia sociologica e antropologica e di individuare quei mutamenti teologici (dunque proprio teorici, speculativi, se vogliamo metafisici) che la rivincita della religiosità ‘alternativa’ alle religioni ‘canoniche’ sta comportando nella mentalità degli stessi credenti che si dichiarano ancora appartenenti a una comunità confessionale di tipo tradizionale. A suo parere, il divino sta acquistando – anzi, ha già acquistato nelle fasce più consapevoli dei ‘fedeli’ – nuove “figure”:                                                             
·      “la realtà ultima viene sempre meno associata alla figura di un divino personalizzato e assume maggiormente quella di un divino impersonale, inoggettivabile, indicibile”
·      “l’uomo non cerca tanto di venerare un Dio esterno quanto di sentire il divino nel profondo del suo essere”
·   “l’uomo vuole reincantare il mondo, vale a dire ritrovare il divino attraverso le sue manifestazioni cosmiche” (p. 271).
Sarebbe davvero impossibile illustrare queste tre “metamorfosi” nello spazio di un breve saggio. A integrazione – e ad aggiornamento – delle pagine abbondanti che vi dedica Lenoir si potrebbero citare, almeno, i tre volumi recenti delle edizioni Gabrielli di San Pietro in Cariano che raccolgono i contributi di vari teologi contemporanei: Oltre le religioni. Una nuova epoca per la spiritualità umana (2017); Il cosmo come rivelazione. Una nuova storia sacra per l’umanità (2018); La spiritualità oltre il mito. Dal frutto proibito alla rivoluzione della conoscenza (2019). 
       Almeno un’avvertenza per così dire metodologica da parte dell’autore, comunque, tengo a sottolinearla. Egli l’avanza a proposito della prima “metamorfosi” (che avviene sulla scia della venerabile tradizione della “teologia negativa” risalente al neoplatonico Proclo e del suo discepolo cristiano Pseudo-Dionigi Aeropagita, del V secolo), ma aggiunge che vale anche per le altre due: “Senza una vera e propria preparazione filosofica o teologica, è possibile cogliere veramente il valore e il senso di simili opere di teologia mistica? Il fatto che questi autori ‘colpiscano’ i nostri contemporanei è sicuramente una dimostrazione che questi ultimi sono in cerca di una formulazione del divino più profonda, esperienziale, apofatica, di quella che da alcuni secoli domina in Occidente, fatto che ci autorizza a collegare le ricerche attuali di un divino impersonale a queste correnti filosofiche e teologiche che appartengono all’universo tradizionale. Ma occorre sottolineare la differenza di livello tra i due universi. Alcune ricerche individuali attuali probabilmente colgono queste antiche espressioni nella loro coerenza e profondità. Altre vi trovano una semplice risonanza – cosciente o incosciente – di una ricerca superficiale o artificiale, se non addirittura illusoria” (p. 281).   Insomma: solo una vigilanza critica, resa possibile da una solida formazione filosofica e teologica, può ridurre il rischio di vivere le trasformazioni epocali come semplici variazioni di moda. Il rischio non è solo di perdere un’occasione storica per crescere nella relazione dell’umanità con il Mistero che l’abbraccia da ogni lato, ma di cadere in derive irrazionalistiche. L’ambiente delle nuove religiosità – è stato osservato di recente – “si è gradualmente disinteressato agli studi filosofici” e “tale disinteresse” ha consentito “la produzione indiscriminata di teorie sull’aldilà, sugli stati extra-ordinari di coscienza e sull’evoluzione interiore dell’uomo totalmente slegate dall’utilizzo consapevole della più alta facoltà umana. Teorie in cui la fantasia, l’opinione, l’arbitrarietà del singolo e il sentire -appunto – sono veri e propri tronisti, e dove la riflessione filosofica rappresenta quasi un ostacolo, perché viene associata a un ragionamento meccanico, per sua natura fallace” (Andrea Colamedici – Maura Gancitano, Tu non sei Dio. Fenomenologia della spiritualità contemporanea, Tlon, Roma 2016, p. 193).  

Una prima osservazione: la spiritualità è la religiosità ‘senza’ qualcosa?
  Se affido volentieri al lettore il piacere di assaporare tutte le articolazioni della trattazione di Lenoir, non vorrei sottrarmi al compito di avanzare qualche osservazione ‘critica’ (nell’accezione, ovviamente, etimologica e costruttiva del vocabolo). E la prima di queste osservazioni riguarda la distinzione fra “religione” e “religiosità”. Essa è certamente preziosa, ma è anche sufficiente? A me pare di no. Sono convinto che la seconda categoria interpretativa (“religiosità”) vada ulteriormente scomposta, analizzata, per evitare di adoperarla come ombrello troppo ampio (e dunque troppo generico). Mi pare infatti che, fuori dai confini della “religione”, troviamo sì la “religiosità” ma anche – ben distinguibile da essa – la “spiritualità” in senso   a-confessionale e a-religioso. Anche il nostro autore, riprendendo Al posto di Dio di Luc Ferry (Frassinelli, Milano 1998) , distingue – opportunamente – la “religiosità” dalla “spiritualità laica”, ma lo fa in termini che a me appaiano francamente svalutativi di quest’ultima. Infatti (se ho ben capito) la “spiritualità laica” consisterebbe “nella ricerca di una realizzazione personale in un solo livello di realtà: il mondo tangibile dove ci troviamo”; laddove “il credere religioso” (dentro o fuori da un contesto istituzionale, dogmatico, liturgico) vorrebbe “fare l’esperienza più ‘verticale’ di una pluralità di livelli di realtà, in sé e nella natura, attraverso pratiche di autorealizzazione, che cambieranno notevolmente a seconda degli individui, come la preghiera, l’astrologia, la meditazione, le terapie transpersonali o i rituali magico-religiosi” (p. 197). 
Così rappresentata, la differenza fra spiritualità laica e religiosità mi lascia perplesso. Come ho proposto in varie occasioni (tra cui  Mosaici di saggezze. Filosofia come nuova antichissima spiritualità, Diogene Multimedia, Bologna 2015), vedrei la “spiritualità laica” non come un minus rispetto alla “religiosità” bensì come la sua condizione di possibilità, il suo humus indispensabile: senza una sintassi spirituale basica (intessuta di senso critico, gusto del silenzio, sensibilità per la bellezza, compassione per la sofferenza di tutti i viventi, rispetto del contesto naturale, lealtà nelle relazioni, gestione dei bisogni e dei desideri…) ogni eventuale slancio “verticale” di tipo ‘religioso’ puzza di inautenticità. Di incoerenza e di ipocrisia. Di bigottismo. Riconosco meno lontana dalla realtà la perimetrazione della spiritualità laica che offre André Comte-Sponville nel suo Lo spirito dell’ateismo. Introduzione a una spiritualità senza Dio (Ponte delle Grazie, Milano 2007). Dopo aver distinto il “sacro” come “ciò che ha a che fare  con il soprannaturale o il divino” (p. 22) e il “sacro” come “ciò che ha un valore assoluto o che sembra tale, che si fa valere in modo incondizionato, che non può essere violato senza commettere sacrilegio o senza disonore”, il pensatore francese non esita ad affermare che la spiritualità tout court (dunque, anche atea) non può non includere il riconoscimento del ‘sacro’ in questa seconda accezione del vocabolo: il sacro come “la dimensione della verticalità, dell’assoluto o del dovere (a seconda delle parole che vorremo utilizzare) della specie umana, dimensione che ci rende – grazie alla civiltà – diversi dagli animali” (p. 23). Se è la fides come “fede” che ci lega al sacro-divino, è la fides come “fedeltà” che ci lega al sacro-antropologico: e mentre è possibile una fedeltà (“attaccamento, impegno, riconoscenza”, p. 26) senza fede (“credenza” in “una o più divinità”, ivi), è impossibile (o almeno sospetta) una fede senza fedeltà. In ogni caso “l’empietà (l’assenza di fede)” non va confusa con il “nichilismo (l’assenza di fedeltà)”: “quando si è perduta la fede, resta la fedeltà. Quando si sono perdute entrambe, non resta che il nulla, se non peggio” (ivi). In altre parole, se lo intendo bene,  Comte-Sponville è convinto che esiste un livello di spiritualità elementare (o di etica) anteriore alle eventuali, successive, opzioni teologico-religiose: “Il primo dovere, e il principio di tutti gli altri, è vivere e agire umanamente. Per questo, la religione non basta, né ce ne dispensa. L’ateismo neppure” (p. 48). 
Insomma, accogliendo il positivo delle due proposte (Lenoir e Comte-Sponville), ma limandone certe approssimazioni, direi che tutti gli uomini siamo (almeno potenzialmente) dotati di “spiritualità” (basica, laica, elementare, fondamentale): vedrei in un Leopardi o in Mozart splendide espressioni di questa dimensione (che mi guarderei bene dal qualificare “orizzontale” o  confinata nel “mondo tangibile dove ci troviamo”).  Una cerchia meno ampia di umani ritiene di avvertire il contatto con il “numinoso” (il misto di “tremendo” e “affascinante” di cui ha parlato Rudolf Otto) e auto-interpreta (correttamente) come “religiosità” la propria esperienza spirituale: individuerei Foscolo o Beethoven come esponenti di questa dimensione (altra, ma non opposta né in competizione, con la spiritualità ‘laica’).  Una cerchia ancora più ristretta di umani ritiene possibile – talora necessario – incanalare in una “religione” istituzionale il proprio desiderio di comunione con l’Assoluto e, in Lui, con l’universo: gli esponenti più avvertiti e più nobili di questa dimensione (quali sono stati, ad esempio, Manzoni o Bach) non sono stati neppure sfiorati dalla tentazione di svalutare o denigrare quanti hanno preferito vivere ‘soltanto’ la spiritualità antropologica o la religiosità aconfessionale. Viceversa direi che essi hanno meritato e meritano il rispetto universale non solo per i meriti artistici, ma anche perché la loro “fede” in senso confessionale  si è configurata come saldamente radicata in una “religiosità” più ampia e in una ammirevole “spiritualità”  per così dire ‘naturale’. 

Una seconda osservazione: in che senso un Dio trascendente è “un Dio esterno” rispetto al “profondo” dell’essere umano?
  Come abbiamo riportato sopra, Lenoir registra il passaggio epocale da un Dio trascendente a un Dio immanente: “l’uomo non cerca tanto di venerare un Dio esterno quanto di sentire il divino nel profondo del suo essere”. Nessuno di noi, sin da quando ha imparato da bambino la preghiera di Gesù (“Padre nostro che sei nei cieli…”), ha potuto fare a meno di identificare trascendenza e ‘esternità’. L’identificazione risaliva ai secoli precedenti: “Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri” (Isaia, 55, 9). Anzi, adottando il vocabolario di Jung, si potrebbe considerare l’equivalenza “cielo= sede del divino” come un archetipo universale. 
Ma questa “immagine” della trascendenza avvicina o allontana dalla nozione filosofico-teologica corrispondente? A me pare che, dalla mitologia platonica in poi, la nozione di trascendenza sia prigioniera di quegli stessi media che erano stati originariamente elaborati per veicolarla. Un destino simile al semantema ‘metafisica’ che, nato per indicare testi mirati a scandagliare l’intimo degli enti, ha finito col significare la speculazione sull’astratto, sul mentale, sull’a-priori, sull’impalpabile: non più dunque sinonimo di “ultra-fisica” o di “intra-fisica”, bensì di “extra-fisica”. 
“E’ abbastanza naturale “ – ha scritto Joseph de Finance – “che l’intervallo assoluto che ci separa dal Tutt’altro ci si presenti dapprima sotto la figura familiare di ciò che, all’interno della nostra esperienza, ci separa da esseri che noi giudichiamo superiori: il Padre, il Re, il Cielo…Occorre un pensiero già esercitato per distinguere esplicitamente l’infinito dal grandissimo, ciò che sfugge ad ogni misura da ciò che eccede il nostro potere di misurare. Ad una coscienza religiosa ancora rudimentale l’Assoluto si presenterà dunque sotto dei volti la cui inadeguatezza ci sembra evidente. Non bisogna arrestarsi però a ciascuna di queste espressioni come se essa formasse, da sé sola, un senso compiuto; bisogna invece interpretarle attraverso il movimento che le ha suscitate, che le porta, le anima, dona loro un senso, e che le fa rifiutare via via che esse manifestino la loro insufficienza in rapporto ad un’esigenza sempre meglio percepita. E’ come se il loro ruolo fosse quello di rivelare al pensiero religioso, in ciascuna delle sue tappe, mediante questa reazione di rigetto, la vera portata del suo slancio. Bisogna che il pensiero esista, e prenda figura, perché esso possa superarsi. Ma esso deve superarsi, altrimenti la figura diventa un ostacolo ed uno schermo, e lo slancio religioso affonda o si smarrisce” (Au-delà de tout. Per un Dio senza antropomorfismi, Ila Palma, Palermo 1984, pp. 24-25). Sì, affermare la trascendenza divina significa che “Egli è al di là, al di sopra”, ma “come la sorgente e il fondamento di tutto” (p. 51) . E’ proprio per questa ragione che “vi è al fondo di ogni essere in quanto essere, e più in particolare al fondo di ogni spirito in quanto spirito, un’intima affinità con Lui  - non rappresentabile, non esprimibile in concetti proporzionati – che assicura alle nostre affermazioni su Dio il sovrappiù di significato necessario alla loro verità. Se noi vogliamo portare in chiaro questo sovrappiù, non lo possiamo che per mezzo di termini che, a loro volta, attingono nell’indicibile il loro sovrappiù di senso; e così di seguito” (pp. 51- 52). Insomma: la nozione ‘comune’ di trascendenza esige di essere trascesa… 
  Se vogliamo pensare l’Impensabile con l’aiuto di metafore tratte dalla nostra esperienza mondana, potremmo riferirci a una poesia di Saffo o a una canzone di John Lennon. Dei marziani che atterrassero sul nostro pianeta il giorno dopo un disastro nucleare totale potrebbero trovare un libro con le liriche della poetessa greca o un cd con Immagine del cantante inglese. Si dedicherebbero, molto comprensibilmente, a capire di cosa sia fatto un libro o un cd; ad analizzarne i materiali, la struttura chimico-fisica, le fasi in cui si è snodato il relativo processo produttivo e così via. Se uno di loro sostenesse che con tutte quelle ricerche – in sé preziose – non si attingerebbe il proprium di quella poesia o di quella canzone in quanto ‘trascendente’ la carta del volume o il metallo del disco, “dove” se non nel volume o nel disco lo si potrebbe rintracciare? Eppure tale ‘immanenza’ non solo non escluderebbe, ma anzi presupporrebbe, una qualche irriducibilità ontologica fra i contenuti noetico-estetici e i supporti materiali che li veicolano. 


Una terza osservazione: de-antropomorfizzare Dio significa necessariamente spersonalizzarlo?
Rilevando, con esattezza e correttezza, ciò che sta avvenendo nel passaggio dalle religioni (monoteistiche) alla/alle  religiosità, Lenoir – come abbiamo accennato sopra – sottolinea il passaggio “dal Dio personalizzato al divino impersonale”: “il rifiuto di un Dio antropomorfo si accompagna a una critica più radicale della concezione del Dio personalizzato sviluppata dai poli dominanti dei monoteismi. Un Dio che si rivolge personalmente agli uomini, si immischia nelle cose umane, conclude alleanze con loro e parla mediante la voce dei profeti” (p. 272). In termini equivalenti questo rifiuto è denominato, nel dibattito attuale, rifiuto del “teismo”: basterebbe leggere il libretto molto agile del gesuita Roger Lenaers  (Cristiani nel XXI secolo? Una ri-lettura radicale del Credo, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2018)  o la trattazione più impegnativa del vescovo episcopaliano John Shelby Spong (Perché il cristianesimo deve cambiare o morire. La nuova riforma della fede e della prassi della Chiesa, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2019) per rendersi conto di ciò che è in questione. Tutta questa letteratura ( e dunque, a fortiori, le pagine di Lenoir che non è un teologo, ma un filosofo e un sociologo) è, a mio sommesso avviso, inficiata da qualche equivoco che, almeno allo stato attuale, sono in grado solo di individuare, non certo di sciogliere. Essa, infatti, è motivata da un’esigenza sacrosanta: andare non solo “oltre alle ridicole rappresentazioni di un Dio barbuto”, ma anche al di là del “Dio biblico che si adira, si lamenta, cambia idea, si arrabbia e non nasconde i propri rimorsi” (Lenoir, p. 272). Anzi, poiché nella storia occidentale si è avuta una de-antropomorfizzazione di Dio con il “deismo” illuministico, questa letteratura teologica contemporanea vuole andare anche oltre il Dio sobrio, ma comunque identificabile concettualmente, del Sei-Settecento: “il Dio lontano e totalmente trascendente di una certa teologia cristiana razionalista, quello dei filosofi deisti del XVII secolo o il grande architetto dei massoni, quel Dio estraneo al mondo, nato dalla concezione di un cosmo-macchina disincantato”; insomma,  un “Dio esterno, estraneo al cosmo e alle faccende umane” che “non si rivolge al cuore, alla sensibilità, non si ‘prova’ ”  (p. 289). 
Né antropomorfismo ingenuo, dunque, né deismo cerebrale: in un solo vocabolo, non teismo. 
Non resta che il Dio “impersonale” che fa tutt’uno con la natura (prospettiva soprattutto anteriore, o comunque esterna, ai monoteismi) e/o con la storia dell’umanità (prospettiva soprattutto romantico-idealistica che ritiene di inglobare e superare l’unilateralità dei monoteismi)?  Ma quanto questa concezione del divino si differenzia davvero dall’ateismo? “Io non sono ateo” (spiega un amico a Comte-Sponville), “credo che ci sia qualcosa, un’energia…”. E il pensatore francese risponde: “Perbacco ! Anch’io credo che ci sia qualcosa, un’energia […]. Ma credere in Dio non è credere in un’energia: significa credere in una volontà o in un amore! Non è credere in qualche cosa; significa credere in Qualcuno! Ed è a questa volontà, a questo amore, a questo Qualcuno […] a cui, per parte mia, non credo” (Lo spirito dell’ateismo, cit., p. 76). 
Ecco il punto che, a mio avviso, meriterebbe più attenzione: tra teismo e a-teismo (uso qui l’alfa privativa in senso letterale per indicare qualsiasi posizione teologica differente dal teismo) tertium datur . Ma questo tertium sarebbe una Forza anonima onnipresente (diciamo, con molta approssimazione, il Divino dei panteisti) oppure una “figura” che, senza essere banalmente qualificata “in base alle specificità dell’essere umano” (esponendosi al sarcasmo di Voltaire: “Se Dio ci ha fatto a sua immagine, gli abbiamo reso pan per focaccia”) (p. 272), sia comunque dotata almeno di quelle ricchezze che riconosciamo alla soggettività umana (quando la concepiamo potenzialmente capace di conoscenza, di libertà, di relazionalità, di responsabilità) ? E’ in questa direzione che hanno riflettuto personaggi come Tommaso d’Aquino, al quale la teologia puramente negativa (o apofatica) era molto ben presente. Ed è in questa direzione che continuano a riflettere pensatori contemporanei come Hans Küng che , ad esempio, propone la categoria della “transpersonalità” e di “superpersonalità”: “Dio non è certamente una persona nel modo in cui lo è l’uomo: l’Onnicomprensivo e Onnipervadente non è mai un oggetto da cui l’uomo possa distanziarsi per esprimersi su di lui. Il fondamento, il sostegno e il fine originario dell’intera realtà, che determina ogni singola esistenza, non è una persona particolare tra le altre persone, non è un super-uomo o un super-io. Anche il concetto di persona è una cifra per indicare Dio: Dio non è la persona suprema tra altre persone. Egli trascende anche il concetto di persona: Dio è più che persona. […] Un Dio che giustifica la personalità, non può essere egli stesso apersonale. Proprio perché non è una ‘cosa’, proprio perché, come si sostiene in Oriente, non è visibile, disponibile, manipolabile, Dio non è neppure im-personale o infra-personale. Dio trascende anche il concetto di impersonale: Egli non è neppure meno che persona. […] Dio non è qualcosa di neutro, un Es, ma un Dio degli uomini, che provoca la decisione della fede o dell’incredulità: Egli è spirito dotato di libertà creativa, è l’identità originaria di giustizia e amore, un interlocutore che trascende e insieme giustifica ogni personalità interumana. Se si vuole chiamare la realtà primissima e ultimissima con i nomi che le danno le filosofie religiose dell’Oriente (il ‘Vuoto’ o il ‘Nulla assoluto’), si deve anche aggiungere che essa è l’Essere stesso che si manifesta con un’esigenza e una comprensione infinite. Nel caso che si faccia questione di parole, sarà meglio definire la realtà realissima come transpersonale e superpersonale, invece che come personale o apersonale” (Dio esiste?, Mondadori, Milano 1979, pp. 704 – 705). 
 So bene che queste considerazioni di Hans Küng non sono definitive e lasciano aperte molte domande. Se meritano, a mio modesto avviso, di essere esaminate almeno come ipotesi è perché mi sembra assai poco ragionevole che il Tutto (comunque lo si concepisca: solo trascendente, solo immanente o trascendente-immanente) non abbia una qualche sua originaria e originale consapevolezza di quella microscopica particella costituita da ciascuno di noi mortali, laddove ciascuno di noi mortali è invece – almeno potenzialmente – in grado di rapportarsi con il Tutto in maniera consapevole e libera. Questa asimmetria fra il Tutto e una (microscopica) parte, a favore della (microscopica) parte, non mi convince dal punto di vista logico. Come, d’altronde, non mi convincono i tentativi di questa (microscopica) parte di andare al di là della generalissima affermazione che il Tutto non può essere meno consapevole della (microscopica) parte, producendo teorie su cosa questo Tutto sia nella sua essenza, voglia nei confronti dell’universo e così via. Anche su questo silenzio apicale mi ritrovo in sintonia con Tommaso d’Aquino che – lo ricorda Lenoir a p. 275 – in De potentia (q. 7, a. 5, ad 14) ha lasciato scritto: “In ultima istanza, tutto ciò che l’uomo sa di Dio, è che non lo conosce, in quanto sa che ciò che Dio è supera tutto quello che di Lui possiamo conoscere”. Purtroppo, il buon san Tommaso – in un tempo in cui la conoscenza del mondo biblico era, rispetto a oggi, ingenua  quanto la conoscenza del mondo fisico - ha creduto che questa “nube dell’inconoscenza” (come recita il titolo di un celebre testo inglese, anonimo, del XIV secolo) fosse stata squarciata da un’autorivelazione di Dio stesso al popolo ebraico, prima, e – in Gesù di Nazareth – all’intera umanità, dopo. E ha scritto i volumi delle due Summae delle quali, in punto di morte, ha dovuto dare – per onestà intellettuale – come giudizio conclusivo: “Sono solo  paglia” (cfr. ivi), chiedendo che venissero bruciati.  


    Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

7 commenti:

Germano Federici ha detto...

Articolo davvero meritevole di essere letto, riletto e ponderato. Non sono in grado di aggiungere altro. Forse avrei accentuato una conseguenza delle due percezioni che oggi abbiamo sul Divino (il Mistero): la sua definitiva indicibilità in termini assoluti e la sua presenza in tutto, come fosse una specie di campo 'magnetico' in cui gli enti si percepiscono in sè (come poli) e nella relazione con tutti gli altri (come forze), implicano il dovere di vivere consapevolmente, quale unica spiritualità possibile, quale unica autentica ricerca teologica. La percezione del valore di sè e degli altri trova un qualche senso dentro questo campo, che aggettiviamo come divino od oggettiviamo come Dio.
Ma questo Augusto lo sa e dice meglio di me altrove.

Marginalemente, leggerei in modo diverso le affermazioni di San Tommaso d'Aquino, riportate alla fine dell'articolo:
"Purtroppo, il buon san Tommaso – in un tempo in cui la conoscenza del mondo biblico era, rispetto a oggi, ingenua quanto la conoscenza del mondo fisico – ha creduto che questa «nube dell’inconoscenza» (come recita il titolo di un celebre testo inglese, anonimo, del XIV secolo) fosse stata squarciata da un’autorivelazione di Dio stesso ..."
Credo che la necessaria demitificazione cui hanno diritto i testi sacri per farne emergere le intuizioni di fondo (lo Spirito), percepite di volta in volta come diverse in ogni tempo e luogo, si debba applicare anche al pensiero filosofico.
Non sono uno studioso di Tommaso d'Aquino, ma in quel testo mi pare di leggere l'intuizione che la trascendenza si rivela SOLO nell'immanenza. Per la fede cristiana questo è avvenuto in modo decisivo (trasparente?) nella vicenda dell'uomo di Nazareth.

Bruno Vergani ha detto...

Caro Germano, da ragazzo avevo partecipato a un incontro con von Balthasar, ricordo che interpretava l’ascensione non come un andare lontano o in alto, in un angolo remoto del cosmo, ma come l’ascendere nel profondo delle cose, nell'intimo del creato e delle creature. Poi Giussani partiva da lì per costruire una ecclesiologia dove la Chiesa e il suo Magistero diventavano Dio in terra, ma questo è un altro discorso. Caro Augusto, ho letto un paio di volte l’articolo, quasi un piccolo saggio (potrebbe uscirne un volume). Concordo praticamente in tutto, mi sembra che in fin dei conti l’inutile fardello non sia l’ipotesi di Dio persona in sé (se così fosse, a prescindere, si tratterebbe di un reattivo pregiudizio ideologico), tantomeno la possibile fede o fiducia nei suoi confronti, ma alcune costruzioni dottrinali, o aspetti di queste, che si sono costruite sopra. Se si partisse con questi presupposti probabilmente ci sarebbero meno equivoci.
Ciao
b.

Augusto Cavadi ha detto...

Grazie, Germano, a te e grazie a Bruno.
La vostra attenzione è preziosa.
Su San Tommaso, temo (per lui !) che abbia ritenuto che Dio - filosoficamente in sé inconoscibile (e qua aveva ragione) - si sia però rivelato in persona (nella seconda persona della Trinità) in Gesù, assicurando ai cristiani (e solo ad essi !) la conoscenza, sia pur velata, dei misteri essenziali. Questo è il peccato originale di ciò che i nostri amici chiamano 'teismo': e in questo almeno sono post-teista...

a.

Germano Federici ha detto...

Avevo un altro ricordo della filosofia dell'Aquinate, basato in realtà su qualche frase letta qua o là e quindi la mia interpretazione non può certo essere paragonata alla tua, posta su basi ben più solide.
In particolare ricordo una frase in cui sostiene che chi fa il bene perché l'ha comandato il Signore, non è libero. La libertà per il somma teologo non è precondizione per la salvezza (e la perdizione!), bastando il seguire la legge naturale per conseguirla? Se così è, questo non implica che, appunto, in qualche modo seppur imperfetto, la trascendenza si attinga nella contingenza? Forzo troppo il pensiero di Tommaso?
Per quanto riguarda la pubblicazione del commento, c'è comunque sempre il mio assenso anche per il futuro. Valuta tu: io entro nelle questioni un poco come il famoso elefante che si muove nel negozio di cristallerie. Ho pure il difetto di scrivere spesso di getto, ruminando poco sui contenuti.

Armando Caccamo ha detto...

Grazie! La lettura di questo tuo saggio sarà stimolo ad approfondire tematiche a me care. A me, che non sono né teologò né filosofo, piace indagare la spiritualità che è in me cercando il rapporto col “divino” come parte che intuisce il Tutto. Il pensiero di Tommaso, che non conoscevo, fa capire come alla fine di un lungo percorso teologico-filosofico, si possa tornare al pensiero semplice ma di grande profondità intellettuale ed emozionale. A me piace pensare a Dio come: “TUTTO INTERO IN QUALUNQUE PARTE DI SÈ”

Bruno Vergani ha detto...

Mi sembra che, in fin dei conti, un “inutile fardello” non sia l’ipotesi di “Dio persona” in sé, seppur nella sua problematicità, tantomeno la possibile fede o fiducia nel suo mistero, ma alcune discutibili costruzioni dottrinali (purtroppo non poche), o aspetti di queste, che nei secoli le confessioni religiose hanno costruito sopra la figura di Dio. Importante, dunque, chiarire se con post-teismo si intenda il superamento di questi castelli dogmatici intonacati con bislacche incrostazioni precettistiche, oppure il rifiuto netto dell’ipotesi di Dio persona in tutte le sue accezioni a prescindere, al punto da considerare il lemma “Dio” una parolaccia o il libro di Giobbe spazzatura perché appartenente al paradigma teista, posizioni che manco un miscredente patentato se minimamente intelligente sosterrebbe, consapevole che andrebbe non contro Dio bensì contro la civiltà. Un tale post-teismo sarebbe una reattiva posizione ideologica, a sua volta dottrinale, che francamente ho visto serpeggiare in alcuni testi e nell’argomentare di esponenti del post-teismo che ho letto, efficientissimi nel mettere al bando Dio creatore e persona quanto smarriti nel vuoto prodotto (l'ateismo è cosa seria, mica ci si improvvisa). Sembra che per qualche misterioso malfunzionamento nello svuotamento del cestino abbiano buttato via Dio, conservando però quell’integralismo dottrinale -nella fattispecie per così dire alla rovescia- che ha caratterizzato le sue peggiori e più esaltate interpretazioni.

Ferdinando Sudati ha detto...

Il tuo post - che è un trattato in miniatura - mi richiederà ancora un po' di tempo per terminarlo. Affronta i problemi cruciali del post-teismo in maniera lucida e accattivante.
Proprio in questi giorni ho letto un po' trasversalmente Le Christ philosophe di Lenoir (conoscevo solo il suo libro sulla storia delle religioni). Oggi non mi dice molto, ma è aggiornato e scrive bene, un'ottima sintesi del cristianesimo etico. Se ci fosse in italiano, sarebbe un libro ideale per un omaggio ad amici e conoscenti che non possono affrontare opere ponderose.
Grazie allora per quanto ci offri sul tuo blog.
dFS