venerdì 10 luglio 2020

INVITO AL PENSIERO DI EUGEN DREWERMANN: ELEMENTI PER UN BILANCIO CRITICO


TEOLOGIA E PSICOANALISI. INVITO AL PENSIERO DI EUGEN DREWERMANN

 

Proprio in questi giorni (20 giugno 2020) Eugen Drewermann ha compiuto ottant’anni. L’ho incontrato solo una volta, per alcune ore, a Palermo nel 1996, ma i suoi libri – tradotti in molte lingue – hanno segnato come pochi altri la mia vita. A mo’  di regalo di compleanno vorrei dedicargli alcune pagine sia per farlo conoscere a chi (soprattutto per ragioni anagrafiche) non abbia mai letto nulla di lui sia – proprio in omaggio al suo spirito critico – per provare a formulare alcune ragioni di dissenso. Chi volesse andare oltre questi brevi cenni introduttivi potrebbe iniziare la conoscenza della sua grandiosa opera omnia dalla lunga conversazione con Jürgen Hoeren (cfr. Drewermann 2003).

 

Quale ‘religione’ è necessaria all’umanità ?  

In un’epoca di indubbia secolarizzazione (anche se alcuni sociologi, talora modificando opinioni proprie, ritengono di individuare molte tracce di post-secolarizzazione) Drewermann sostiene con forza quasi provocatoria la legittimità, anzi l’irrinunciabilità, della “religione” per la sopravvivenza della specie umana. La tesi è per lo meno ardita: per discuterla nel merito va però liberata da possibili, anzi probabili, equivoci. Il semantema “religione”, a seconda dei contesti, viene adoperato da Drewermann in almeno due accezioni differenti. Quando egli si riferisce alle religioni ‘positive’, storiche, come sistemi gerarchici/dottrinari/etici/liturgici , si mostra di una durezza spietata: 

 

“Ciò che noi oggi chiamiamo religione, a me pare lo sgabuzzino della società. Si suppone che lì dentro ci siano ancora un paio di attrezzi per pulire, ma essi sono più buoni per un sabba infernale che per la pulizia del sistema nel suo complesso. Il patrimonio di ciò che un tempo era la religione, oggi si presenta solo gestito in versione mediatica e folcloristica. Quando il papa, in una udienza in san Pietro, impartisce la benedizione urbi et orbi, tutte le telecamere sono puntate su questo evento e naturalmente miliardi di persone, volendo, se lo possono vedere. Ma, in quanto evento mediatico, ha lo stesso valore di quando noi qui a casa nostra guardiamo gli induisti che si immergono nel Gange. Per chi induista non è, questo fatto non è collegato a un’esperienza religiosa. Se la religione viene considerata un intrattenimento, ci si può chiedere, naturalmente, se le cose non stessero esattamente così anche prima: […] non spiritualità, non autenticità esistenziale, non il coraggio di rischiare la libertà, non individualità o esistenza profetica – il collettivo come associazione e il folclore della tradizione ‘proteggono’ la religione”  (Drewermann 2003: 162).

 

In questa prima accezione del termine, Drewermann è in linea con quei teologi contemporanei che sostengono ormai superato il “paradigma religionale” (cfr. Fanti C. - Sudati F. 2016). Tuttavia egli usa lo stesso vocabolo “religione” come sinonimo di “fede”: e fede non in quanto accettazione di (presunte) verità che sarebbero state rivelate da Dio all’umanità mediante profeti (Mosé, Gesù, Maometto…), bensì in quanto atteggiamento di “fiducia” in Qualcuno che, nella sua potenza e nella sua bontà, regge il mondo (e, in esso, ciascun essere vivente). 

 

“Non bisogna dire che in questo mondo ognuno è condannato alla sofferenza e all’infelicità e ciò per il semplice fatto di essere un uomo che pensa? Non è vero che, in un certo senso, tutti sono malati nel loro spirito, perché sono consapevoli di essere abbandonati a se stessi di fronte alla morte, alla caducità, alla nullità, alla non-necessarietà dell’esistenza e al fatto di essere solo in apparenza?” (Drewermann1995: 61).

 

Ebbene, la “religione” (autentica) è “essenzialmente una risposta alla contingenza, a questo problema di fondo di tutto l’esserci creato e finito” (Ivi). 

In questa accezione , “religione” non sarebbe  patrimonio esclusivo di una determinata tradizione, ma di tutte le grandi sapienze dell’umanità: la sua eclisse non risulterebbe né prevedibile né tanto meno auspicabile. 

Ma analizziamo più attentamente la risposta di Drewermann, distante tanto da chi invita “ad andare oltre la religione”  (Fox 2019: 226) quanto dall’insegnamento del Magistero cattolico. Egli sa bene che

 

“non c’è catechismo, non c’è trattazione teologica che, in sostanza, non cominci con: «In principio Dio creò il cielo e la terra». E nella storia della teologia si è sempre inteso di poter desumere dal dato di fatto della creazione l’esistenza di Dio. Nella Chiesa cattolica, il concilio Vaticano I, verso il 1870, ha persino elevato a dogma la dottrina che è possibile dimostrare (demonstrari posse) l’esistenza di Dio. E nei testi conciliari si è addirittura aggiunta la formula: con l’ausilio della proposizione causale. Si intendeva dire che Dio è la causa suprema, e che il mondo non si spiega fino in fondo finché non desumiamo Dio come la causa che è in grado di spiegare tutto” (Drewermann 2003: 29).

 

Questo itinerarium mentis in Deum sarebbe, a suo parere, ormai impercorribile. Le scienze naturali (in primis, astrofisica e biologia) renderebbero impossibile continuare a partire  dalla bellezza dell’universo, dalle sue leggi decifrabili, dal suo stesso esistere quali piste di decollo per risalire a un Essere creatore. A suo avviso, infatti,

 

“nella natura la sapienza e la bontà sono messe in discussione. Esiste una sofferenza talmente infinita, esistono talmente tante cose che non hanno ricompensa, talmente tanto caos e tanta assurdità in questo mondo, che non ci si può richiamare a un piano razionale in via di realizzazione, il quale, come una cianografia in mano a un tecnico, diventerebbe l’architettura del mondo” (Drewermann 2003: 20 – 21).

 

La vita, individuale e collettiva, degli esseri umani come degli altri animali,

 

“ va considerata tragica e per nessun motivo la grandiosa manifestazione di un Dio che ha organizzato tutto questo con amore e sapienza, con bontà e onnipotenza. Ciò che noi chiamiamo ‘creazione’ è, Charles Darwin ha ragione, prima di tutto un pasticcio, ben lontano da qualsiasi perfezione, che probabilmente non ci sarà mai. In un mondo in cui un animale vive solo per mangiarne un altro, in cui ogni pianta cresce facendo ombra alla pianta vicina, che fa morire, di bontà non ce n’è molta da vedere” (Drewermann 2003: 55).

 

Se le cose stanno così, se nessun Lebniz può ormai arrischiare una “giustificazione di Dio” (una “teodicea”), non resta che optare per il “crescente ateismo nell’età moderna” (Drewermann 2003: 21)? Non resta che abbracciare la secolarizzazione post-religionale?

Il pensatore tedesco spiazza anche questo genere di aspettative. Ammette che l’esperienza del mondo e nel mondo ci rappresenta soprattutto errori e orrori; che  la condizione fisiologica non può essere se non l’angoscia intesa, heideggerianamente, come smarrimento al cospetto della morte. Aggiunge, sulla scia di Kierkegaard, che dall’angoscia deriva ogni forma di cattiveria, egoismo, avidità, prepotenza violenza. Tuttavia si chiede: perché, sino ad oggi, in preda all’angoscia, l’umanità non si è autodistrutta? Che cosa l’ha, sinora, preservata dal suicidio nichilistico? A opera di cosa  può essere ‘salvata’, oggi e nell’immediato futuro?

Solo dall’idea che la morte non è la fine di tutto, ma il passaggio dal tempo all’eternità. Questa idea è la fede, la religione in senso forte e vero: essa sola può risparmiare alla specie umana l’autodissoluzione collettiva. Fede non come ‘credenza’, condivisione di questa o quella ‘dottrina’, recezione di ‘opinioni’ più o meno autorevoli, ma come  “fedeltà”, affidamento nelle braccia di Dio. Tale convinzione  – per essere esistenzialmente efficace nelle vite e nella storia - non può configurarsi in termini meramente concettuali:  deve piuttosto manifestarsi poeticamente, nella lingua dei simboli, delle metafore, delle immagini. Non è un caso che tutti i libri ‘sacri’ (tra cui la Bibbia) si snodino su registri linguistici ‘narrativi’, raccontando sogni, miti, fiabe, saghe, leggende, visioni, storie di ‘miracoli’, ‘profezie’, parabole (cfr. Drewermann 1996). L’equivoco letale della cristianità si è consumato quando, sin dai primi secoli, questo linguaggio evocativo è stato trasposto sul piano logico-razionale ed è stato cristallizzato in dogmi e precetti da imporre sempre più violentemente quanto meno risultavano comprensibili e accettabili dal buon senso della gente e dalla riflessione degli intellettuali. Oggi la cultura ci mette a disposizione molti strumenti per riscoprire l’approccio più adeguato a questi testi, soprattutto grazie alla psicoanalisi di Freud e di Jung: i commenti al libro di Giona (cfr. Drewermann 2003) o al vangelo di Marco (cfr. Drewermann 2002), ad opera dello stesso Drewermann, ne costituiscano ammirevoli esemplificazioni.

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1 commento:

Claudio Giambelli ha detto...

Car@,
ho letto con piacere l'articolo di Augusto su Drewermann.
Anche per me Drewermann ha segnato molti anni della mia ricerca.....di liberazione dall'angoscia esistenziale.
Ho anche "incontrato" Drewermann ad un primo convegno qui a Roma; non riuscii a partecipare al secondo.

Iniziai col leggere il libro "Parola che salva, parola che guarisce. La forza liberatrice della fede", che è in realtà una raccolta ri-ordinata di una serie di interviste radiofoniche. Rimasi colpito dalla ragione per cui lui iniziò' un percorso di formazione psicologica, a livello universitario. Infatti, giovane prete, fu inviato in un centro per persone con patologie mentali che lui cercava di "curare" con le parole dei vangeli, come gli avevano insegnato, ma senza esiti concreti se non una generica consolazione. Drewermann non accettò la limitatezza di quell'approccio e si laureò in psicologia, unendo la forza della sua fede alla forza di nuove interpretazioni delle parole e azioni di Gesu', alla luce della psicologia del profondo, come un ponte da una "salvezza" escatologica ad una guarigione concreta e attuale. Si dotò, quindi, di un nuovo strumento inedito, per far emergere forze liberatrici endogene, nei suoi "pazienti", in tutte le persone "invischiate" dai legami di una religiosità senza liberazione e soprattutto nei chierici per i quali vedeva con grande lucidità la trappola di una religiosità malata in cui erano caduti e che magari difendevano con tutte le loro forze, pena la perdita di un riferimento esistenziale.

Ho letto molti altri libri di Drewermann; non tutti perchè è una produzione immensa e variegata.

Ad un certo punto mi sono sentito piu' distaccato dal suo percorso; non mi bastava piu'. Tutto era re-interpretato, con grande capacità, vero, alla luce della psicologia del profondo. Pur apprezzando molto l'interpretazione dei racconti dei miracoli di Gesu', sentivo che mancava qualcosa, almeno per me, una dimensione non piu' descrivibile a parole, per quanto molte (troppe?), potenti ed argomentative. La "salvezza-guarigione" poteva incontrare altri/ulteriori elementi di collegamento tra l'inconscio e la biologia, dove fenomeni inspiegabili, al momento dalla scienza, possono trovare ambiti di energia trasformativa, fino ad attivare processi di autoguarigione.

La mia esigenza, insopprimibile, nasce dalla consapevolezza, mi pare ormai chiarito, che tutt@ abbiamo bisogno di salvezza-guarigione-liberazione , se non altro dal nostro ego-centrismo/antropo-centrismo, che ci fa compiere azioni che provocano dolore sia a noi stessi, sia agli altr@, sia al pianeta vivente; il piccolo, ma neanche tanto, esempio del tipo di dieta che usa carne proveniente da allevamenti intensivi, veri e propri luoghi di tortura dei nostri fratelli e sorelle animali è centrato rispetto a tale tematica. Ma è solo uno dei tanti punti.

Di nuovo, buona estate a tutt@
Claudio Giambelli