lunedì 29 marzo 2021

SERGE LATOUCHE E IL RE-INCANTAMENTO DEL MONDO


 “Adista- Segni Nuovi”

27.3.2021

COME REINCATARE IL MONDO: L’ULTIMO LIBRO DI SERGE LATOUCHE 

Serge Latouche (che, in parallelo con Maurizio Pallante) guida la schiera – non particolarmente numerosa, ma particolarmente agguerrita – degli “obiettori della crescita” ha pubblicato un libro poco voluminoso e molto intenso su Come reincantare il mondo. La decrescita e il sacro (Bollati Boringhieri, Torino 2020, pp.93, euro 10,00). Il testo è nettamente diviso in due parti.

Nella prima l’autore, dichiaratamente ‘laico’ nell’accezione comune del termine, riprende e rilancia in maniera organica l’accusa già altre volte lanciata contro la Modernità di aver fatto del plesso “”progresso, tecnica e economia” i “tre pilastri” di una nuova “religione”: un’accusa che si comprende meglio se si tiene presente che – almeno a giudizio di Latouche – il motore del “progresso” sarebbe “lo sviluppo, in altre parole la crescita del PIL pro capite” (p. 35). Siamo dentro il “paradosso” dell’Illuminismo (di stampo liberale, dal punto di vista ideologico, e borghese, dal punto di vista dell’estrazione sociale) che “pretendeva di demistificare gli idoli, e effettivamente ha distrutto la tradizione, i vecchi pregiudizi e i vecchi dei. Ma lo ha fatto in nome di nuove divinità ancora più potenti e più tiranniche: la Razionalità, il Progresso, la Scienza, la Tecnica, lo Sviluppo e la Crescita economica. Questi idoli sono oggetto di un culto, di una devozione e di una sacralizzazione inauditi. E le vittime offerte in sacrificio a questi falsi idoli sono innumerevoli” (p. 30). A proposito di essi – di ciascuno e di tutti nel loro insieme – l’autore ripete ciò che ha osservato Dany-Robert Dufour riferendosi al Divin Marché: “Sarebbe il colmo crederci liberi da ogni dio nel momento stesso in cui non ce n’è stato mai uno più potente!” (p. 28). 

  “Dato che la crescita è diventata una religione laica o un’antireligione, con una fede nel progresso e il culto feticista del PIL [], la decrescita per reazione si vede costretta a reincantare il mondo e a reintrodurre la spiritualità”, anche per bocca di quei suoi teorici che “si reclamano atei” (p. 41). Ciò significa – tanto per lasciare un paradosso ed entrare in un altro – fare della teoria e della pratica della decrescita una nuova “religione”? La seconda parte del libro è dedicata alla risposta a questa domanda, risposta che si può sinteticamente formulare così: “La principale difficoltà di realizzare il progetto di una società della decrescita non può essere risolta con l’argomentazione, per quanto convincente possa essere. L’uomo non è soltanto un animale razionale, è anche un essere sensibile in carne e ossa, e dunque attraversato da passioni. Anche se il teorico si rivolge necessariamente all’intelligenza del suo lettore, non può ignorare questo fatto, senza comunque per questo doversi trasformare in profeta o in guru. Poiché il fondamento della società della crescita sta nella sfera della religione, le dimostrazioni e i ragionamenti scalfiscono poco la fede del carbonaio. Ogni religione si caratterizza per la propria autoimmunizzazione , e questo è vero in particolare per la religione della crescita. Stando così le cose, si tratta di realizzare una sorta di conversione di massa” (pp. 75 -76). Tale processo non ha bisogno di miti, di sacerdoti, di gerarchie. L’obiettivo di “reincantare il mondo e aggiungere degli ingredienti di natura spirituale alle argomentazioni filosofiche e scientifiche” lo si può perseguire benissimo “impegnandosi nel senso del recupero della capacità di meraviglia”: “la via della decrescita non si propone né come una religione né come una religione né come un’antireligione, ma piuttosto come una saggezza” (p. 78).  

  Come ricorda lo stesso Latouche, Pier Paolo Pasolini aveva chiesto alla Chiesa cattolica di guidare la rivolta contro “il nuovo potere consumistico, che è completamente irreligioso; totalitario; violento” (p. 79): mezzo secolo dopo si può replicare lo stesso appello? L’autore dedica una sezione consistente del libro per rispondere in maniera sostanzialmente negativa. A suo avviso, infatti, la Caritas in veritate di Benedetto XVI, del 2009,  sarebbe il tentativo diplomatico di giustificare un “ossimoro”: la “«buona» economia” (p. 43). Ma anche l’enciclica di papa Francesco, Laudato si’, del 2015, pur rappresentando “una incontestabile rottura, in quanto costituisce, secondo i termini impiegati, un appello per una ecologia integrale”, è segno di “una radicalità che non si spinge tanto lontano quanto il progetto classico della decrescita” (p. 54). 

 Questi rilievi critici ai papi Ratzinger e Bergoglio meritano un approfondimento, possibile solo distinguendo i due imputati. 

 Del primo, Latouche denunzia l’ambiguità “vaticanesca” : “Né il capitalismo, né il profitto, né la globalizzazione, né lo sfruttamento della natura, né le esportazioni di capitale, né la finanza, né naturalmente la crescita e lo sviluppo sono condannati di per sé. Accanto agli eccessi e alle perversioni ci sarebbero dunque un buon profitto, una buona divisione internazionale del lavoro, una buonaglobalizzazione, una buona finanza e un buon capitale. Sarebbero dunque soltanto le deviazioni, gli abusi, gli stravolgimenti di queste «cose», né buone né cattive in sé, ad essere condannabili” (pp. 43 – 44). Che il papa tedesco, tenace avversario della Teologia della liberazione di origine latino-americana, abbia annacquato le sue critiche alla società capitalistica con passaggi caratterizzati da “vaghezza e astrattezza” (p. 48) è vero. Come è vero che alcuni suoi silenzi hanno pesato come macigni: “Non una parola per denunciare la perversione della pubblicità” o “l’indecenza del marketing”  (p. 53). Tuttavia come negare che con Francesco la musica è cambiata? Se così non fosse, non si spiegherebbe per quali ragioni i sostenitori entusiastici di Benedetto XVI si sono scandalizzati non appena le stesse critiche alla società dei consumi, ma con accuratezza di dettagli e concretezza di esemplificazioni, sono state rilanciate dal suo successore sulla cattedra di Pietro.

Latouche, pur concedendo qualche attestato di stima a papa Francesco, lo ritiene comunque “prigioniero dell’ideologia lavorista” (p. 71),  mira al cuore della questione: dal Magistero cattolico ufficiale, e dai suoi consiglieri come Stefano Zamagni, Luigino Bruni, Leonardo Becchetti e altri (cfr. pp. 50 - 52), egli si sarebbe aspettato una condanna della “logica del sistema, perché incompatibile con la morale cristiana, o più semplicemente con quella che Orwell chiama la common decency (la decenza comune)” (p. 44). Insomma: una condanna del capitalismo o della “economia di mercato” (p. 49). E’ legittima questa sua aspettativa? Con tutto il rispetto, anzi  l’ammirazione, per l’opera di Latouche (e di tanti altri miei amici impegnati come lui nella critica al sistema capitalistico), non posso che rispondere con un doppio ‘no’.

Innanzitutto per una questione di metodo. Le Chiese – come tutte le altre agenzie culturali e pedagogiche operanti nella società – hanno il diritto, anzi il dovere, di esprimere le proprie opinioni meditate e argomentate (dunque, senza facili ricorsi al  principio di autorità) dal punto di vista etico, non dal punto di vista tecnico. In ambito di teoria economica ciò significa essere chiari – senza i “compromessi” diplomatici denunziati da Latouche – sui fini ultimi (la Terra e le sue ricchezze potenziali sono destinate all’intera umanità, a tutti gli esseri umani e a ciascuno di essi), ma misurati e cauti sui mezzi per raggiungere i fini prefissati (proprietà individuale dei mezzi di produzione? Proprietà statale? Proprietà sociale mediante cooperative di lavoro più o meno federate? Regime misto di proprietà individuali, collettive e statali?). La scelta dei mezzi, delle soluzioni tecniche, delle sperimentazioni pratiche appartiene al campo dell’opinabile e del variabile: una parola pontificia costituirebbe, a mio parere, un’ingerenza inopportuna, degna di epoche di integralismo clericale che si spera tramontate per sempre.

Ma ammettiamo che questa distinzione (di metodo) da me proposta non regga e che le Chiese abbiano il diritto/dovere di pronunziarsi anche sui sistemi economici: considerato nel merito, il sistema capitalistico, fondato sul diritto di proprietà privata e sulla libertà di mercato, è intrinsecamente immorale e incompatibile con il vangelo? Latouche ne è convinto e fa sua la dichiarazione di Frédéric Lordon: “L’impresa capitalistica è, per costruzione, e la cosa è rimasta identica da quando Marx l’ha analizzata, il luogo del dispotismo padronale. E’ ozioso obiettare che a volte ci possono essere despoti illuminati, gentili, forse anche dirigenti attenti a non arrivare all’estremo del potenziale dispotico che i rapporti sociali di produzione mettono oggettivamente nelle loro mani” (p. 44). 

  Personalmente, invece, non mi sento di sottoscrivere l’apoditticità di questa condanna del capitalismo. Capisco benissimo, perché l’avverto nel mio stesso animo, l’indignazione per le sperequazioni insopportabili tuttora vigenti fra ceti sociali trasversali rispetto agli stessi confini nazionali. Ma le reazioni emotive, per quanto rispettabili, se non diventano analisi razionale e progettazione attuabile, o lasciano le cose come stanno o addirittura le peggiorano. Il capitalismo va smascherato nella sua   “logica” intrinsecamente sfruttatrice grazie agli strumenti scientifici fornitici irreversibilmente da Marx (ed è un disastro che le sue opere non siano più oggetto di  studio neppure nelle formazioni partitiche e sindacali che sarebbero di “sinistra”). Anzi, a quasi due secoli da Marx, possiamo aggiungere che il capitalismo sfrutta tanto la forza-lavoro dei salariati quanto le risorse (limitate) del pianeta. 

Ciò chiarito, però, bisogna specificare – se non si vogliono prendere in giro né gli altri né se stessi – in che direzione si vuole lavorare per condizionare il corso della storia. In altri termini, non ritengo si abbia diritto a criticare il capitalismo se si elude una domanda: che cosa proporre come alternativa a questo sistema socio-economico? Non dico in prospettiva escatologica (perché viene entusiasmante anche a me sognare una società in cui si arrivi, gradualmente e consensualmente, a un meccanismo istituzionale che distribuisca a ciascuno secondo i suoi bisogni quanto sia stato prodotto da ognuno secondo le sue capacità fisiche, psichiche, intellettuali), ma nel breve-medio periodo. Qui le strade restano, come duecento anni fa, le stesse: o la via rivoluzionaria o il riformismo. 

La prima strada, non certo inedita, passa per il ‘socialismo’ come fase (dittatoriale) di ‘transizione’ al ‘comunismo’: sappiamo che disastri ha provocato chi l’ha intrapresa. Più ragionevole e meno pericolosa  - sempre in ottica ‘rivoluzionaria’ - l’alternativa dell’ ‘anarchismo’ come approdo universale di un’evoluzione che non conosca pericolose fasi intermedie di ‘capitalismi di Stato’ né di partiti ‘unici’. Tuttavia essa implica una pazienza secolare se non si vuole ricorrere alla violenza terroristica né all’intimidazione delle maggioranze conservatrici. 

La seconda strada praticabile  - dopo le macerie del XX secolo in cui liberismo individualistico, statalismo fascista, collettivismo socialcomunista e conservatorismo cristiano-borghese hanno dato il peggio di sé – è lavorare, sin da subito e nella limitatezza degli spazi agibili, per imbrigliare il sistema economico capitalistico con le redini di un sistema politico che miri al ben-essere sociale (non solo delle micro-società locali ma della macro-società che è l’umanità) mediante la partecipazione progressiva di un numero crescente di uomini e donne (metodo democratico). Una strada meno romantica, certamente, ma non condannata a diventare grigia perpetuazione dell’esistente. Anche al riformismo sarebbe possibile (a mio avviso, anzi, necessario) darsi un’utopia: è stata già fissata nei “sacri princìpi dell’Ottantanove” (libertà-eguaglianza-fraternità). 

Quali di queste due strade imbocca Latouche (in questo come nei precedenti scritti)? La risposta non (mi) è chiara. Ho l’impressione che la sua proposta non sia del tutto immune da quelle “vaghezza e astrattezza” (p. 48) che egli denunzia nei testi del mondo culturale cattolico. Tuttavia sono convinto che egli può contribuire, con ingredienti apprezzabili, a preparare i pasti “le osterie dell’avvenire”. Ad esempio quando caldeggia “il progetto di costruzione” (promosso dal “movimento della decrescita”), “al nord come al sud, di società conviviali autonome ed econome” implicanti, “a rigor di termini, più una «a-crescita»” che “una «decrescita» in senso letterale” (p. 77). Pur con le cautele realistiche del caso (ed è ai miei occhi importante che Latouche, forse per la prima volta, accetti di sostituire il provocatorio termine “decrescita” con il più comprensibile e condivisibile “a-crescita”) è irrinunziabile che anche oggi, come nel passato, vi siano nel deserto dell’utilitarismo delle oasi dove si sperimenti e si testimoni l’ulteriorità  - rispetto all’ineliminabile dimensione economica – di altri bisogni e di altri desideri. 

 

Augusto Cavadi  

 www.augustocavadi.com

2 commenti:

Giuliana Sammartino ha detto...

Caro Augusto, nel condividere la tua pacata critica al radicalismo utopistico di Latouche (di cui noi tutti condividiamo l'invito a uno stile di vita più sobrio e più vicino al Sacro della Natura), mi piace ricordare cosa Latouche mi rispose anni fa in un incontro a Favignana. Gli chiesi se nel rifiuto della crescita di 'cose', doveva ricomprendersi anche il rifiuto dei servizi, di strumenti e tecnologie che possono salvaguardare l'ambiente o migliorare la salute. Mi rispose secco che anche quelle erano 'cose' da rifiutare come crescita. Come allora, ritengo invece che la 'crescita' di servizi e tecnologie ecologiche, mediche, dirette a salvaguardare la Natura, la salute, favorire l'autonomia di popoli africani afflitti dalla siccità potrebbe essere un'alternativa possibile, praticabile politicamente e perché no, anche etica...
Giuliana Sammartino

Giuliana Sammartino ha detto...

...(segue) anche se conosco la contro-obiezione: per le tecnologie serve il silicio e dunque sfruttare i paesi poveri :-(