sabato 19 luglio 2025

L’ABBRACCIO DI ARMONIA E DISARMONIA

 Tradizionalmente l’armonia è stata un ideale desiderabile e realizzabile. Non oggi, mi pare, in cui tendiamo a ritenerla mistificante e, comunque, impossibile da sperimentare. Infatti, là dove c’è simmetria fra gli elementi, proporzione fra le parti, equilibrio fra le componenti, scatta il sospetto. Se non addirittura il dileggio e il rigetto. Ogni rappresentazione armonica ci sa di finto e spesso d’ingannevole: le famiglie consumano la colazione mattutina in assetto pacifico, del tutto privo di frizioni, solo negli spot pubblicitari delle fette biscottate.

Anche quando ammiriamo un’opera d’arte classica ci viene spontaneo misurarne la distanza cronologica dal nostro presente.  Il neo-classico, poi, l’avvertiamo come una sorta di infiltrazione abusiva nella stagione del disordine, dell’eccesso, del perturbante. Temiamo la normalità - il rispetto del canone, il conseguente rischio dell’assuefazione e della noia - più di ogni imprevisto. Questa condizione d’inquietudine esistenziale, che si riverbera in tutti gli altri ambiti (dall’estetica alla politica, dalla liturgia alla finanza) non è un merito e neppure un demerito: piuttosto un dato, un fatto. Possiamo tentare solo di misurarne possibili pregi e inconvenienti.

Pregi e rischi della propensione per la disarmonia

Tra i pregi di questa tendenza spirituale spicca il desiderio di verità e di autenticità. La vita, la natura, la storia non sono armoniche e non vogliamo che alcun occhiale ce le renda diverse, edulcorandole. C’è una “potenza del negativo” avvertiva Hegel che non va eufemizzata, ma conosciuta e accettata. La dimensione tragica del reale – insisteva Nietzsche - è ineliminabile e ogni tentativo di anestetizzarci per non soffrirne è destinato a fallire, peggiorando la nostra schiavitù. Ci sono molte ragioni per cui “grandi narrazioni” come il cristianesimo e il marxismo sono in crisi di consenso, ma tra queste – probabilmente – va annoverata la loro promessa di una méta finale dove la morte, l’ingiustizia, il male saranno definitivamente aboliti: una promessa troppo allettante, troppo confortante, per essere attendibile.

Se la diffidenza verso ogni ideale di armonia esprime volontà di verità (oggettiva) e di autenticità (soggettiva), non si può negare che comporti i suoi rischi. Primo fra tutti il cinismo (nell’accezione comune, e impropria, del termine). Ci sono soggetti, gruppi, movimenti culturali e/o politici che, per non scadere nell’ingenuità, finiscono col non vedere i frammenti di armonia, di equilibrio, in fondo di bellezza, neppure nei rari casi in cui essi rilucono effettivamente. C’è una retorica buonista, ma anche un riduzionismo che qualificherei ‘cattivista’ che si compiace di accentuare – sino all’assolutizzazione – gli aspetti dissonanti e conflittuali della natura e della storia.

“Dai discordi bellissima armonia”

Che sia possibile conciliare la schietta constatazione del contrasto con una prospettiva altrettanto realistica di rasserenamento mi pare testimoniato da alcuni frammenti del più antico teorico della dialettica occidentale. Senza la pretesa di interpretare correttamente un pensiero che non ci è pervenuto in forma organica, potremmo forse affermare che Eraclito non nega l’evidenza empirica della disarmonia, della  “guerra” (a suo avviso “madre di tutte le cose”, DK 53), ma non si  ferma alla fenomenologia: la nostra mente, infatti, è in grado di leggere anche la filigrana dell’essere e riconoscervi una “armonia nascosta” (DK 54). Il disordine apparente avrebbe ormai distrutto se stesso se non fosse sostenuto, governato, preservato da un ordine, da una logica, più profonda: “un’unica legge divina (…) domina tanto quanto vuole e basta per tutte le cose e ne avanza per di più” (DK 114). Il caos dei contrasti è reale, ma non è la realtà ultima, costituita da quel Logos che li “lega” (legei)  evitandone l’autodissoluzione.  La verità, dunque, è accessibile solo quando si accettano le due metà dell’unica sfera: essa è “armonia contrastante, come quella dell’arco e della lira” (DK 51). Lo stolto – sembra si possa concludere – vede il mondo come un paese dei balocchi, privo di travagli, avversità, delusioni. Il semi-saggio, con occhi ben aperti, si accorge degli ostacoli incessanti e ne tiene conto con accorta prudenza, anche a costo di perdere fiducia verso persone e avvenimenti. Il saggio, grazie al logos (pensiero) di cui è dotato  - una sorta di terzo occhio – perviene a intuire il Logos (pensiero) che regge e pervade l’universo. Senza illusioni, ma neanche caparbia resistenza, si mette in ascolto obbediente di questo Assoluto che “non vuole e vuole anche essere chiamato Zeus” (DK 32): che non è solo luce, ma neppure solo buio, perché è “giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame” (DK 67). Infatti, in generale, “l'opposto concorde e dai discordi bellissima armonia” (DK 8).

Anche dopo Platone e Aristotele, Agostino e Tommaso (a giudizio dei quali il Divino è solo Bene, Perfezione, Verità e Pienezza ontologica)  permane la perplessità di pensare il Fondamento divino della totalità come puro positivo: Schelling nell’Ottocento e Pareyson nel Novecento si sono interrogati sulla necessità di ammettere anche in Dio una dimensione di ombra con cui Egli/Ella/Esso per primo/a debba fare i conti. Vige dunque intatto, al di sopra di facili ottimismi e di altrettanto facili pessimismi, il convincimento eracliteo: “congiungimenti sono intero e non intero, concorde discorde, armonico disarmonico, e da tutte le cose l'uno e dall'uno tutte le cose” (DK  10).

Augusto Cavadi

“Frontiere della scuola”, XXII, maggio 2025

1 commento:

Pietro ha detto...

E Jung avvertiva: Dio non è solo amore, è anche terrible...