Tradizionalmente l’armonia è stata un ideale desiderabile e realizzabile. Non oggi, mi pare, in cui tendiamo a ritenerla mistificante e, comunque, impossibile da sperimentare. Infatti, là dove c’è simmetria fra gli elementi, proporzione fra le parti, equilibrio fra le componenti, scatta il sospetto. Se non addirittura il dileggio e il rigetto. Ogni rappresentazione armonica ci sa di finto e spesso d’ingannevole: le famiglie consumano la colazione mattutina in assetto pacifico, del tutto privo di frizioni, solo negli spot pubblicitari delle fette biscottate.
Anche quando ammiriamo un’opera d’arte classica ci viene spontaneo misurarne la distanza cronologica dal nostro presente. Il neo-classico, poi, l’avvertiamo come una sorta di infiltrazione abusiva nella stagione del disordine, dell’eccesso, del perturbante. Temiamo la normalità - il rispetto del canone, il conseguente rischio dell’assuefazione e della noia - più di ogni imprevisto. Questa condizione d’inquietudine esistenziale, che si riverbera in tutti gli altri ambiti (dall’estetica alla politica, dalla liturgia alla finanza) non è un merito e neppure un demerito: piuttosto un dato, un fatto. Possiamo tentare solo di misurarne possibili pregi e inconvenienti.
Pregi
e rischi della propensione per la disarmonia
Tra
i pregi di questa tendenza spirituale spicca il desiderio di verità e di autenticità.
La vita, la natura, la storia non sono armoniche e non vogliamo che alcun occhiale
ce le renda diverse, edulcorandole. C’è una “potenza del negativo” avvertiva
Hegel che non va eufemizzata, ma conosciuta e accettata. La dimensione tragica
del reale – insisteva Nietzsche - è ineliminabile e ogni tentativo di
anestetizzarci per non soffrirne è destinato a fallire, peggiorando la nostra
schiavitù. Ci sono molte ragioni per cui “grandi narrazioni” come il
cristianesimo e il marxismo sono in crisi di consenso, ma tra queste –
probabilmente – va annoverata la loro promessa di una méta finale dove la
morte, l’ingiustizia, il male saranno definitivamente aboliti: una promessa
troppo allettante, troppo confortante, per essere attendibile.
Se la diffidenza verso ogni ideale di armonia esprime volontà di verità (oggettiva) e di autenticità (soggettiva), non si può negare che comporti i suoi rischi. Primo fra tutti il cinismo (nell’accezione comune, e impropria, del termine). Ci sono soggetti, gruppi, movimenti culturali e/o politici che, per non scadere nell’ingenuità, finiscono col non vedere i frammenti di armonia, di equilibrio, in fondo di bellezza, neppure nei rari casi in cui essi rilucono effettivamente. C’è una retorica buonista, ma anche un riduzionismo che qualificherei ‘cattivista’ che si compiace di accentuare – sino all’assolutizzazione – gli aspetti dissonanti e conflittuali della natura e della storia.
“Dai discordi bellissima armonia”
Che
sia possibile conciliare la schietta constatazione del contrasto con una
prospettiva altrettanto realistica di rasserenamento mi pare testimoniato da
alcuni frammenti del più antico teorico della dialettica occidentale. Senza la
pretesa di interpretare correttamente un pensiero che non ci è pervenuto in
forma organica, potremmo forse affermare che Eraclito non nega l’evidenza
empirica della disarmonia, della “guerra” (a suo avviso “madre di tutte le
cose”, DK 53), ma non si ferma alla
fenomenologia: la nostra mente, infatti, è in grado di leggere anche la
filigrana dell’essere e riconoscervi una “armonia nascosta” (DK 54). Il
disordine apparente avrebbe ormai distrutto se stesso se non fosse sostenuto,
governato, preservato da un ordine, da una logica, più profonda: “un’unica
legge divina (…) domina tanto quanto vuole e basta per tutte le cose e ne
avanza per di più” (DK 114). Il caos dei contrasti è reale, ma non è la realtà
ultima, costituita da quel Logos che li “lega” (legei) evitandone l’autodissoluzione. La verità, dunque, è accessibile solo quando
si accettano le due metà dell’unica sfera: essa è “armonia contrastante, come
quella dell’arco e della lira” (DK 51). Lo stolto – sembra si possa concludere
– vede il mondo come un paese dei balocchi, privo di travagli, avversità,
delusioni. Il semi-saggio, con occhi ben aperti, si accorge degli ostacoli
incessanti e ne tiene conto con accorta prudenza, anche a costo di perdere
fiducia verso persone e avvenimenti. Il saggio, grazie al logos
(pensiero) di cui è dotato - una sorta
di terzo occhio – perviene a intuire il Logos (pensiero) che regge e
pervade l’universo. Senza illusioni, ma neanche caparbia resistenza, si mette
in ascolto obbediente di questo Assoluto che “non vuole e vuole anche essere
chiamato Zeus” (DK 32): che non è solo luce, ma neppure solo buio, perché è “giorno
notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame” (DK 67). Infatti, in
generale, “l'opposto concorde e dai discordi bellissima armonia” (DK 8).
Anche dopo Platone e Aristotele, Agostino e Tommaso (a giudizio dei quali il Divino è solo Bene, Perfezione, Verità e Pienezza ontologica) permane la perplessità di pensare il Fondamento divino della totalità come puro positivo: Schelling nell’Ottocento e Pareyson nel Novecento si sono interrogati sulla necessità di ammettere anche in Dio una dimensione di ombra con cui Egli/Ella/Esso per primo/a debba fare i conti. Vige dunque intatto, al di sopra di facili ottimismi e di altrettanto facili pessimismi, il convincimento eracliteo: “congiungimenti sono intero e non intero, concorde discorde, armonico disarmonico, e da tutte le cose l'uno e dall'uno tutte le cose” (DK 10).
Augusto
Cavadi
“Frontiere
della scuola”, XXII, maggio 2025
1 commento:
E Jung avvertiva: Dio non è solo amore, è anche terrible...
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