domenica 2 settembre 2018

DOPO LOVERE. QUALCHE ALTRA CONSIDERAZIONE SULLA SETTIMANA DI FILOSOFIA PER NON...FILOSOFI

     DOPO LOVERE. ALTRE CONSIDERAZIONI.

La XXI “Settimana filosofica per non…filosofi”, a Lovere sul lago d’Iseo, di cui avevo dato notizia su questo blog, si è conclusa col pranzo comunitario di lunedì 27 agosto. Ognuno dei quaranta partecipanti ha tratto qualcosa dalle riflessioni, polifoniche, sul tema dell’anno (Lo spazio della speranza nell’epoca della disperazione): come sosteneva nel Medioevo san Tommaso d’Aquino, quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur che, grosso modo, corrisponderebbe in italiano a ognuno si porta a casa quanto entra nella sua sporta.
    Provo, per succinte notazioni, a raccontare qualche mia acquisizione.
    La prima: il titolo che avevo suggerito per l’edizione di quest’anno è risultato fuorviante o, per lo meno, impreciso. Chiara e Agnese l’hanno contestato sin dall’inizio: perché “nell’epoca della disperazione” ? Non siamo credenti in senso religioso, non siamo impegnate in campo politico, ma viviamo con serietà e serenità la nostra professione di bibliotecarie: nessuna di noi due si avverte “disperata”. Lo siamo forse “a nostra insaputa”? L’obiezione mi ha dato da pensare. Forse nel dizionario italiano manca qualcosa che indichi non la perdita della speranza (la di-sperazione), bensì l’assenza radicale della stessa (una sorta di a-sperazione). E questa condizione esistenziale conserva una duplice valenza. Da una parte, infatti, mi pare che – per riprendere Martin Heidegger - sia sintomo di quella povertà così grande da non consentire  di avvertirsi poveri: la generazione immediatamente successiva alla mia non si sente orfana delle grandi narrazioni (dal cristianesimo al marxismo) perché non ha fatto in tempo ad aderirvi, in gioventù, con la passione incondizionata di alcuni di noi. Ma – vorrei aggiungere immediatamente – dall’altra parte questa assenza radicale di speranza si manifesta (o, almeno, si può manifestare come nel caso delle due amiche a Lovere) in positivo come presenza al presente, come valorizzazione di ogni giornata, di ogni ora, di ogni momento. E’ la grande lezione dei filosofi ellenistici occidentali e dei saggi buddhisti orientali. 
    C’è un modo per conciliare l’attenzione al (pur sfuggente) presente e uno sguardo lungo sul futuro che non degeneri in illusione alienante? Ecco una mia seconda notazione: il pensatore marxista (eretico) Ernest Bloch sostiene di sì. E’ possibile, anzi doveroso, anzi inevitabile, coltivare una “utopia concreta”: una progettualità orientata al “non ancora” che, però, si basi sull’analisi critica della situazione esistente, del “già”. Egli, nella seconda metà del XX secolo, riteneva che tale “utopia concreta” fosse identificabile nel marxismo, a patto che lo si intendesse come sintesi in divenire della sua “corrente calda” (passione profetica risalente alla tradizione biblica) e della sua “corrente fredda” (teoria scientifica della società e della storia elaborata da Marx e Engels): alcuni di noi - che non erano marxisti neppure nel Sessantotto quando sembrava intellettualmente e eticamente obbligatorio esserlo – continuiamo a pensare che questa identificazione blochiana (“Ubi Lenin, ibi Jerusalem”) non colga nel segno. Ma siamo, oggi come allora, convinti con Giorgio La Pira e molti altri, che il marxismo, fallimentare come terapia in quanto basato su un’antropologia errata, sia istruttivo – anzi, irrinunciabile – come diagnosi. E non è l’ultima delle disgrazie dei nostri giorni che la Destra più potente e più ignorante della storia occidentale – intendo la Destra che governa alcune zone cruciali del pianeta come gli Stati Uniti d’America e che minaccia di installarsi senza contrappesi in Italia – abbia convinto la stragrande maggioranza della popolazione che marxismo sia sinonimo di totalitarismo regressivo. 
   Il riferimento a Marx mi suggerisce una terza notazione. Nel corso di un laboratorio serale, Andrea (il giovane filosofo che lo conduceva) ha chiesto di scrivere su un foglietto la risposta a due domande: “Cosa ti manca nella vita? Cosa stai facendo per ottenerlo?”. Le risposte di cui si è avuta contezza (le leggevano a voce alta solo i partecipanti che lo decidevano) sono state tutte in chiave soggettivo-esistenziale: “mi manca la capacità di relazionarmi con gli altri”, “mi manca la coerenza quotidiana con i miei princìpi etici”, “mi manca una passione che mi coinvolga fortemente”…Nessuna risposta ha riguardato l’ambito sociale-politico. Anche questo dato, a mio avviso, si presta a considerazioni di segno opposto. Di segno negativo: le speranze collettive sembrano tramontate per sempre o, per lo meno, essersi eclissate. Anche nei casi in cui assistiamo ancora con sdegno alle tragedie epocali – dai migranti che annegano a pochi chilometri dalle nostre spiagge, festosamente animate, alle bambine vendute e stuprate per pochi dollari in aree vastissime del pianeta – vi assistiamo con sorda rassegnazione: non vediamo organizzazioni partitiche, sindacali, religiose cui affidare la nostra impotenza individuale per trasformarla in energia collettiva. Per la verità esistono alcune Organizzazioni non governative che lavorano con sufficiente efficacia, ma – a parte il fatto che per mantenere fiducia in esse è consigliabile non avvicinarsi troppo a osservarne le dinamiche interne e le inevitabili disfunzioni – danno l’impressione di agire solo posticipatamente e settorialmente; laddove si è convinti, più o meno lucidamente, che i drammi planetari attuali vadano affrontati preventivamente e, soprattutto, in un’ottica complessiva. Tuttavia il tenore delle risposte alle domande di Andrea potrebbe conservare anche una valenza positiva: l’intuizione che le speranze al plurale nascono sempre, e si mantengono in vita, dalle speranze al singolare. Un’intuizione molto responsabilizzante che elide in radice ogni logica di delega: per dirla con Gandhi – che certamente non era un individualista apolitico – ognuno di noi deve impegnarsi ad essere per primo, nella propria sfera personale, il cambiamento che spera per il mondo. La speranza dell’io non esclude la speranza del noi; anzi, se autentica e intensa, non può che contagiare centrifugamente gli altri. La speranza, che per sua essenza è un atteggiamento del soggetto, può però essere condivisa da altri soggetti sino a diventare, a macchia d’olio, la speranza (se non di un popolo) di una consistente maggioranza di umani. 


Augusto Cavadi

Una versione più sintetica di questo report è stato ospitato su : 
https://www.zerozeronews.it/filosofia-e-spazio-per-la-speranza-in-unepoca-disperata/

8 commenti:

Bruno Vergani ha detto...

Sono appena tornato dal Capo di Leuca, dove ho incontrato un gruppo di giovani che stanno lottando per non emigrare, la chiamano “restanza”. La situazione appare oggettivamente difficile, quasi disperata, per tutti loro. Anch’io abito in Puglia ma un po’ più a nord del Salento e questa mattina ho incontrato Frank, professore di chimica organica tedesco qui in vacanza. Gli ho chiesto come va in Germania, mi ha risposto sereno e soddisfatto che va sempre meglio, la crescita è costante e le opportunità non mancano e adesso leggo qui della giuliva serenità delle due bibliotecarie.
Deduco due cose, la prima è che c’è chi, non per proprio merito, vive in situazioni favorevoli e chi sfavorevoli. Osservo riguardo i primi che non è obbligatorio ma neppure vietato che considerino i secondi e, in qualche modo, operino in loro favore, già il semplice pensarli sarebbe un primo passo, giusto per non essere egoisti a loro insaputa. La seconda è che il pensiero di Marx, quello ortodosso, aveva diagnosticato il mondo con valorosa puntualità.

ontologie ha detto...

Puntualizzo che più che negare la disperazione attuale, gli interventi hanno rilevato come la disperazione sia una sensazione intrinseca e immanente in ogni epoca della civiltà dell'uomo. Io peraltro, la ritengo quanto mai pervasiva oggi, in piena caduta se non dissolvenza dei valori e degli dei passati.

Unknown ha detto...

Un grazie grandissimo ad Augusto anche per queste ultime considerazioni sulla settimana filosofica, così profonde e chiare pur nella loro sintesi. Eppure c'è sempre chi (complice la scrittura che non potrà mai eguagliare la ricchezza del dialogo) intende altro, giudica, certo non è stato testimone di quelle giornate, altrimenti mai avrebbe detto di me che vivo in "giuliva serenità".
Provo a ridire (a caldo e non con la stessa efficacia di Augusto): sì la mia "assenza radicale di speranza" ma "non di-sperazione" è dovuta al non aver vissuto ma solo sentito raccontare delle "grandi narrazioni" e il mio vivere aspira ad una presenza che valorizzi il presente. Un presente forse più vicino a quanto teorizzato dall'orizzonte etico-antropologico di Orlando Franceschelli, che ai saggi buddhisti orientali.
Allora, giustamente si chiede Augusto "come conciliare l'attenzione al presente con uno sguardo lungo sul futuro?" e ancora più drammaticamente "come passare da una ricerca soggettiva-esistenziale della propria felicità ad una speranza collettiva di felicità?
Non ho risposte universali e mi rendo conto solo ora che sono domande che covano da tempo dentro di me e si manifestano visibilmente solo nel mio sguardo malinconico (altro che giuliva serenità).
Tuttavia questi giorni filosofici loveresi così ricchi di stimoli, in presenza di persone sincere e buone (non mi viene un termine migliore) mi hanno aiutato a comprendere che tutti, al di là delle speranze immanenti o trascendenti che ognuno può nutrire, possiamo DARE speranza, fosse solo attraverso un sorriso. Questo sarà il mio impegno.

Augusto Cavadi ha detto...

Chi sei ? Chiara o Agnese ? Un abbraccione in ogni ipotesi a tutte e due !

Bruno Vergani ha detto...

Chiedo scusa per il giulivo e prendo atto del malinconico, ma il punto è evidentemente un altro: “epoca” è nome che esprime un momento storico di grande rilievo universale e collettivo, dunque “epoca della disperazione“ è da intendersi con accezione filosofica, sociologica e politica. Viceversa una condizione personale disperata, oppure giuliva o malinconica, non è evento epocale, ma uno stato individuale squisitamente psicologico (anche se affrontabile filosoficamente). Mi sembra che, nonostante i fraintendimenti che ho attivato, il titolo della settimana sia perfetto nel non equivocare i due livelli.

Unknown ha detto...

Non credo sia molto utile in questo caso distinguere l'ambito individuale/psicologico da quello universale/collettivo se (riprendendo sempre dalle considerazioni di Cavadi) "... le speranze al plurale nascono sempre, e si mantengono in vita, dalle speranze al singolare. Un’intuizione molto responsabilizzante che elide in radice ogni logica di delega: per dirla con Gandhi – che certamente non era un individualista apolitico – ognuno di noi deve impegnarsi ad essere per primo, nella propria sfera personale, il cambiamento che spera per il mondo..."
Agnese

Chiara Zara ha detto...

Sono l'altra giuliva, Chiara.
La lettura del primo post mi aveva in effetti un po' infastidito, ringrazio Agnese per la risposta (che io non ho dato subito per un'esigenza di riflessione ulteriore) e apprezzo le scuse.
Sono d'accordo con quanto scritto da Agnese, in particolare sulla spiacevolezza di certi giudizi gratuiti e sul fatto che il plurale (la società, il livello filosofico-politico) sia in ultima analisi una somma di singolari (l'individuo, il livello psicologico).
Fa pensare questo sospetto nei confronti di concezioni (esistenziali, etiche, filosofiche...) che intendono affrontare un percorso di liberazione da attese millenaristiche e Speranze con S maiuscola e che, proprio per questo, intendono costruire con fatica e impegno, giorno per giorno, con umiltà e insieme con fierezza, un senso al proprio esistere e al mondo circostante.
Speranza lascia il posto ad una progettualità responsabile oppure, quando la prima si esaurisce, ad un abbandono malinconico ma consapevole.
Io vorrei chiamarla etica della sfida e della responsabilità che, per quanto mi riguarda, vede nell'etica kantiana un faro insuperato di ispirazione e fiducia. Che poi questa conduca anche alla felicità non saprei dire, non avendo completato il percorso. Credo che abbiamo bisogno di visionari, nel senso di individui non miopi ma nemmeno persi nel vuoto di orizzonti infiniti, piuttosto impegnati nel cogliere i segni e le opportunità del presente per costruire faticosamente il futuro.
Infine... che io e Agnese siamo entrambe donne ed entrambe bibliotecarie (con continue frequentazioni con gli strumenti della cultura cartacei e digitali, libri e quanto oggi offre l'editoria online), vorrà dire qualcosa?

Chiara Zara

Augusto Cavadi ha detto...

Grazie, Chiara, del tuo intervento. Spero che a infastidirti un po' sia stata la lettura non del "primo post", ma se mai di un commento al primo post. Sono sicuro comunque che, quando conoscerai Bruno vis-a-vis, ti accorgerai che si tratta di una persona splendida lontana mille miglia da qualsiasi malevolenza. Tuttavia la scrittura, qualche volta, tradisce...