giovedì 4 dicembre 2025

LE ESIGENZE EVANGELICHE RIDOTTE A PAPPETTA

Qui il commento (richiestomi da "Adista" per la rubrica "Fuori tempio") al brano del vangelo (Mt 3,1-12)  della II Domenica di avvento:


Il profeta deve sforzarsi di parlare a tutti, ma anche guardarsi dalla tentazione di accettare il consenso indiscriminato dei suoi interlocutori. Questo almeno sembra insegnare la vicenda di Giovanni Battista. Secondo il brano matteano di oggi, egli  predicava nel deserto della Giudea dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!» e da «Gerusalemme, tutta la Giudea e tutta la zona lungo il Giordano accorrevano a lui e si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati».

Se fosse stato come molti politici odierni (ma forse di sempre!) si sarebbe rallegrato di tanto consenso, senza andare troppo per il sottile. Ma, poiché intendeva servire la Causa e non servirsene a proprio vantaggio, cerca di capire se tutti quelli che lo applaudono siano sinceri, in buona fede: se davvero intendano cambiare mente (metanoia) per cambiare vita. A torto o a ragione, suppone che “molti farisei e sadducei” accorressero per motivi equivoci: per abbellire la propria immagine pubblica; o per lavarsi la coscienza a poco prezzo; o per confermare a sé stessi e alla società di essere dei figli prediletti di Abramo. E, di conseguenza, esplode: un po’ d’acqua sul capo, anzi neanche una doccia completa,  avranno efficacia nulla se non accompagnate e seguite da buoni frutti!

Per chi è nato e vissuto in tradizioni religiose dove predomina largamente il battesimo dei neonati può riuscire per molti versi difficile sintonizzarsi con la vivace preoccupazione del Battista (e forse potrà sembrare meno difficile man mano che la secolarizzazione diminuirà fortemente la pratica del pedo-battesimo e anche nelle chiese cattoliche saranno più numerosi i battezzati in età adulta per scelta personale consapevole). Ma, per altri versi, la situazione non mi pare molto differente dalle assemblee liturgiche delle varie chiese cristiane, sia storiche che di recente costituzione.

Chi convoca e presiede gli incontri domenicali è insidiato dalla tentazione della statistica: “Questa domenica ho un po’ più gente della scorsa settimana” o “Nella mia chiesa si raduna il doppio dei fedeli che il parroco o il pastore o il predicatore del quartiere vicino riesce ad attrarre”. Nella misura in cui cedesse a questa tentazione del successo, del proselitismo, difficilmente rischierebbe di perdere ‘clienti’ per fedeltà al vangelo. Difficilmente, a Napoli o a Palermo, chiederebbe ai presenti quanti di loro sono vicini ai negozianti che, apertamente, si rifiutano di pagare il pizzo ai mafiosi e per solidarietà non solo non li isolano, ma anzi ne incrementano gli affari. O, a Varese o a Treviso, quanti trattano gli operai che lavorano alle loro dipendenze – soprattutto se sono di origine straniera - rispettando le leggi e ancor più l’equità (nei casi in cui – come per ora la normativa sul “salario minimo” – il diritto vigente è ancora inadeguato  alla giustizia sostanziale). O, a Sondrio o a Reggio Calabria, quanti, ancora, si preoccupano di testimoniare ai figli e ai nipoti la necessità di riservare, nel vortice degli impegni quotidiani, delle piccole pause di silenzio, di riflessione, di lettura. O, a Genova o a Bari, quanti si preoccupano del “Bene comune” – della qualità della vita della polis - sia informandosi sulle iniziative degli amministratori sia partecipando a qualche incontro pubblico sia curando piccoli e grandi gesti a difesa dell’ambiente…

Certo, così facendo, si rischierebbe di infastidire più di un ‘fedele’, inducendolo magari a cambiare assemblea domenicale. Ma, forse ingenuamente, suppongo che il numero degli auto-esodati sarebbe compensato da new entry, provenienti da ‘parrocchie’ dove si riesce nel miracolo di rendere inoffensiva la proposta sconvolgente di Gesù trasformandola in pappetta omogeneizzata digeribile anche dagli stomaci più delicati.

Augusto Cavadi

"Adista-Notizie", n. 39 dell'8.11.2025

mercoledì 3 dicembre 2025

DA MARCEL PROUST, "ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO. LA STRADA DI SWANN", EINAUDI, TORINO 1965

 "I domestici avevano messo dentro precipitosamente le seggiole, ché, quando i corazzieri sfilavano per la rue Sainte-Hildegarde, la occupavano per intero in larghezza, e il galoppo dei cavalli rasentava le case, coprendo i marciapiedi sommersi come sponde che offrano un letto troppo angusto all'irrompere di un torrente.

- Poveri ragazzi, - diceva Francoise, appena arrivata al cancello e già in lacrime, - povera gioventù che sarà falciata via come un prato; solo a pensarci, ne son tutta scossa, - soggiungeva mettendosi la mano sul cuore, là dove aveva sentito la 'scossa'.

- E' bello, vero, signora Francoise, vedere dei giovani che alla vita non ci tengono? - diceva il giardiniere per farla 'saltar su'.

Non avena parlato inutilmente:

- Non tenerci alla vita? E di che curarsi allora, se non della vita, il solo dono che il buon Dio non fa mai due volte? Ah, mio Dio! E' pure vero che non se ne curano! Li ho visti nel Settanta; non hanno più paura della morte, in quelle sciagurate guerre; non sono né più né meno che dei pazzi; e poi non valgon più la corda per impiccarli, non sono uomini, sono leoni -. (Per Francoise il paragone d'un uomo con un leone, che pronunciava le-o-ne, non aveva niente di lusinghiero).

(...)

Il giardiniere era convinto che alla dichiarazione di guerra avrebbero fermato tutti i treni.

- Diamine, perché non si scappi, - diceva Francoise.

E il giardiniere: - Ah, son furbi, - poiché a suo giudizio la guerra non era che una specie di brutto tiro che il governo cercava di giocare al popolo, e, se fosse stato possibile, nessuno avrebbe rinunciato a squagliarsela"

(pp. 95 - 97 - traduzione di Natalia Ginzburg)

martedì 2 dicembre 2025

LA FEDE PIU’ CHE LE CREDENZE: MA QUALE FEDE?


www.adista.it

29.11.2025

LA FEDE PIU’ CHE LE CREDENZE: MA QUALE FEDE?

Nella recensione del volume di Edoardo Castagna, Ad extra. Cattolici e cultura: un dibattito (Avvenire-Vita e pensiero, 2025, Milano, 15€ : vedi “Adista- Segni nuovi”, 42, del 29.11.25: https://www.adista.it/articolo/74906), Walter Minnella e Gianfranco Poma,  dopo aver  riportato una sintesi della situazione attuale della Chiesa cattolica  del teologo milanese Pierangelo Sequeri (“molta morale, poca comunità, zero cultura”) aggiungono che gradirebbero “sentire il parere di qualche lettore”. Suppongo che la reazione della maggior parte dei lettori non possa che essere di consenziente approvazione. Ma se è agevole l’accordo sulla diagnosi, forse non lo è altrettanto sulle terapie possibili.

I due autori della recensione, ad esempio, citano Marco Vannini che da decenni propone di “distinguere la fede dalle credenze: queste ultime sono storiche, la fede è metastorica (va al di là della storia)”. Così formulata mi risuona come una ricetta perfetta. Ma cosa intendere per “fede”? Qui si prospettano - mi esprimo per sommi capi – due vie principali.

Vannini, come altri ammirevoli esponenti della medesima prospettiva, pensano alla vita mistica in generale e a all’esperienza dell’identificazione con l’Uno-Tutto in particolare. Questa interpretazione, degna del massimo rispetto, presenta a mio parere alcuni limiti: a) non è biblicamente fondata (per quanto ne sappiamo né i profeti né Gesù l’hanno adottata e proposta); b) non si presta ad essere accolta da quelle aree sociali che si sono allontanate dalla Chiesa cattolica. Chi si riconosce in tale interpretazione dovrebbe chiarire, con la massima onestà intellettuale, che si tratta di una proposta teoretico-metafisica di ascendenze pre-cristiane (in Occidente) ed extra-cristiane (in Oriente): dunque una proposta accettabile in un’ottica di libertà pluralistica ma che non va considerata la migliore – anzi, l’unica – modalità di vivere la “fede” cristiana.

Molto più fedele ai dati biblici, e in particolare alla testimonianza del Gesù narrato dagli evangelisti (canonici e non), è un’altra visione della “fede”: l’atteggiamento di chi, aperto al volere divino, si dedica fattivamente alla realizzazione del “regno di Dio” nella storia. La fede come solidarietà nei confronti del debole, dell’oppresso, dell’emarginato: come autodonazione gratuita, “a perdere”. Come agape. Questa interpretazione mi parrebbe preferibile non solo perché più tipicamente (anche se non esclusivamente!) cristiana, ma anche perché “laica” nell’accezione etimologica di “popolare”: tale da poter essere accolta da fasce sociali indifferenti sia alla vecchia tradizione della “catechesi” dottrinaria che alla fascinazione dell’unione mistica.

Chiarita la differenza fra i due “fuochi” andrebbero sciorinate una serie lunga di precisazioni. Mi limito a due.

La prima: non solo il papa “eretico” Francesco, ma anche l’ “ortodosso” Leone XIV insistono nell’identificare la fede autentica con l’agape folle (vedi, ad esempio, la prima Lettera apostolica del nuovo papa, Dilexi te che liquida la falsa opposizione fra “verticale” e “orizzontale”: dedicarsi a chi soffre è una scelta teologica, non un’opzione sociologica).  Basterà questo per attrarre le masse in esilio dai confini ecclesiali? Se la filantropia sarà praticata effettivamente – e se sarà praticata senza la furbizia strategica di usarla come ponte per riportare i fuoriusciti dentro l’Istituzione dogmatica e gerarchica – lo si può sperare. Ma proprio il primato dell’amore a trecentosessanta gradi scompiglia le carte, abbatte i confini: nessuno saprà mai chi è “dentro” e chi è “fuori” e, alla fin dei conti, non avrà nessuna importanza saperlo.

La seconda precisazione tende a recuperare il valido, anzi l’indispensabile, dell’interpretazione “mistica”. Amare – ci ha insegnato molti decenni fa Erich Fromm – è un’arte. Le chiese, proprio se vorranno essere centrali operative di servizio alla società, dovranno essere contestualmente spazi di silenzio, di studio serio della Bibbia e di tutte le sapienze dell’umanità, di meditazione personale e comunitaria, di nuove liturgie depurate da ogni linguaggio “teistico”. La dimensione spirituale, culturale e cultuale, è una dimensione antropologica costitutiva: il cristiano, che in quanto tale è proiettato nella liberazione integrale dei fratelli di tutto il pianeta e del pianeta stesso, non può trascurare la radice e la fonte interiore del suo impegno.  Per citare Knitter, Buddha e Gesù non solo non si escludono, ma si integrano vicendevolmente.

Augusto Cavadi

lunedì 1 dicembre 2025

ANDREA COZZO SUL VOLUME DI ANTONIO MINALDI "GANDHI AD AUSCHWITZ"

Su questo blog ho recensito Gandhi ad Auschwitz di Antonio Minaldi. Poco dopo è uscita questa recensione di Andrea Cozzo che esplicita alcuni temi da me toccati e  aggiunge osservazioni molto interessanti che non si trovavano nel mio commento:

https://www.pressenza.com/it/2025/11/qualche-appunto-su-gandhi-ad-auschwitz/

sabato 29 novembre 2025

E’ DECEDUTO DON SALVATORE RESCA: CITTADINO, DOCENTE E PRETE

Ci sono preti che morendo lasciano un vuoto nella comunità cristiana in cui hanno vissuto e operato. Altri che lo lasciano nell’intera città, ben al di là dei recinti ecclesiali. Don Salvatore Resca va annoverato senz’altro in questa seconda categoria. Infatti con lui – spentosi a novant’anni compiuti il 27 novembre – non muore solo il viceparroco della parrocchia dei Santi Pietro e Paolo, la più celebre e attiva della grande diocesi di Catania, ma anche il docente di filosofia stimato e amato da intere generazioni di liceali e il fondatore del movimento “Cittàinsieme”, un esperimento decennale di aggregazione politico-culturale indipendente dai partiti politici, vigile criticamente e propositiva costruttivamente.

Certo, come capita ai profeti, sulla sua bara piovono le dichiarazioni ufficiali di ammirazione e di cordoglio (dall’Amministrazione e il Consiglio comunale di Catania che ne ricordano lo “spiccato senso dell’impegno sociale nell’interesse del bene comune” all'ex presidente della Regione Raffaele Lombardo che ha l’onestà di ricordare “le divergenti vedute su temi di interesse sociale” esplose anche in occasioni di “confronto molto vivace coi suoi giovani”): ma la verità è che, in vita, don Resca è stato un pungolo socratico fastidioso a molti, dentro e fuori la Chiesa. Lo è stato dal pulpito – le sue omelie sono state pubblicate in tre volumi dalle edizioni “Il pozzo di Giacobbe” con il titolo inequivoco Il vangelo al contrario, Prediche uggiose – ma lo è stato ancor di più nell’agorà cittadina dove non ha soltanto denunciato il malaffare mafioso senza cercare giri di parole, ma anche interloquito altrettanto coraggiosamente con le giunte municipali di ogni colore susseguitesi nei decenni (come può fare solo chi non ha né fame di finanziamenti pubblici né brama di affiancarsi ai poteri forti): anche l’ex sindaco Enzo Bianco, che pur riconosce il contributo di “Città Insieme” al “Patto per Catania che rappresenterà il cardine della Primavera” della città etnea, non può fare a meno di ricordarne, oltre ai “suggerimenti”, le “provocazioni intelligenti”.

Elio Camilleri, compagno di studi a Partinico di Peppino Impastato e di Salvo Vitale, mi racconta i viaggi quasi quotidiani in auto da Catania a Caltagirone e ritorno con il collega di insegnamento Resca: viaggi che – resi leggeri dalla divertente loquela  del prete – erano anche occasione di confronto fra due persone di ben diverso orientamento religioso.

                                                                 Augusto Cavadi


Qui la versione originale:

giovedì 27 novembre 2025

L’AVVENTO DI GESU’ O IL NOSTRO?

 

Anche quest'anno l'agenzia di stampa "Adista" mi ha chiesto di commentare (per la rubrica "Fuori tempio") i vangeli delle quattro domeniche di avvento. Qui di seguito il commento al vangelo della I domenica (30 novembre 2025).

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell'uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell'arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell'uomo» (
Mt 24, 37-44).

Negli anni della iniziazione alla pratica liturgica cattolica (grazie a un frate agostiniano che accompagnava un gruppo scout della mia città e nonostante i ripetuti tentativi di dissuasione da parte dei miei familiari) era agevole prendere posizione davanti a brani come questo: ritenevi vero che Noè fosse vissuto tre o quattro millenni fa e che  Gesù lo avesse evocato per esemplificare il suo stesso secondo – e definitivo – avvento? Allora eri un credente. Dubitavi fortemente della attendibilità storica di tutto ciò? Allora ti potevi serenamente considerare non-credente, un infedele.

Sessant’anni dopo non è più così. L’alternativa non è così secca, drastica. Chi ha studiato anche solo un po’ di teologia, ma seria, sa con ragionevole certezza che Noè  non è un personaggio storico; che un diluvio “universale” non c’è mai stato; che Gesù non ha mai pronunziato questa ‘profezia’; che i redattori del vangelo gliel’hanno posto sulle labbra circa mezzo secolo dopo per esortare le loro comunità a non cedere all’imborghesimento per scoraggiamento…

E allora, che fare? Continuare a credere di credere, facendo finta di niente, rinunziando al sapere storico-esegetico o addirittura irridendolo (come perfino Benedetto XVI ha fatto nei suoi volumi su Gesù, per fortuna precisando di scrivere da teologo privato e non da pontefice) ? Oppure, al contrario, cessare di dirsi cristiani, gettare pagine come questa alle ortiche o, al massimo, affidarle ai cultori di letteratura greca antica?

Forse sono percorribili anche altre vie, non del tutto dissimili da chi ama i versi dell’Odissea o della Divina Commedia prescindendo dall’effettiva esistenza storica di Ulisse o della collina del Purgatorio. Per chi vede in Gesù (come in Socrate o in Buddha) un segno, un sintomo, un ologramma di una dimensione altra rispetto alla pur concretissima tragica storicità; per chi riconosce nel suo messaggio sia un invito a vivere per ciò che conta e nutre la propria interiorità sia un progetto utopico di società verso cui orientare gli ingiusti assetti sociali attuali; per costui/costei questa pagina matteana risuona come un monito a non sprecare il breve segmento di vita concessoci.

Francamente non so se ci sarà un ritorno di Gesù tra noi e propendo a non crederlo verosimile; ma so con certezza che la morte mi attende e può afferrarmi, come un ladro nella notte, quando meno me l’aspetto. Non sarà la fine del mondo, ma certo del mio mondo. Poi? O il nulla o la fusione con l’Infinito. O (solo) la decomposizione della mia dimensione corporea o (anche) l’immersione verso l’abissale Profondità di quella sfera dell’essere di cui, in questa vita, sperimentiamo soltanto la superficie agitata da travagli e stoltezze. Sarebbe bello se, in questa seconda ipotesi, potessi riconoscere – tra milioni di volti che hanno calcato le strade del mondo indicandoci l’Oltre – anche il volto del Nazareno, “Figlio dell’uomo”: non egli sarebbe tornato a me sulla Terra, ma io sarei andato a incontrare lui nel Mistero. Dopo il mio primo ‘avvento’ nella storia, si realizzerebbe il mio secondo ‘avvento’ nella meta-storia. In ogni caso, l’incontro tra noi due sarebbe realmente effettuato. Di questa speranza a me parla ancora la pericope odierna. Forse dice meno di quanto mi dicesse negli anni Sessanta del Novecento, ma di certo me lo dice con un tono meno inverosimile e perciò più convincente.

Augusto Cavadi

“Adista /Notizie”, 38, 1-11-2025

martedì 25 novembre 2025

I QUATTRO (ANZI CINQUE) RACCONTI DI VALERIO DROGA


La passione per la scrittura, come tutte le passioni intense, porta a imprese folli. O che tali possono apparire. E’ il caso di Valerio Droga che, non pago di scrivere racconti, ne disegna le illustrazioni, li impagina con cura, s’inventa un marchio editoriale per pubblicarli e s’ingegna di promuoverli attraverso vari canali telematici. Egli inaugura una delle nove Collane progettate, la “Collana della Farfalla”, con la raccolta Ma quanto parli? Quattro storie contate (www.lamedlibri.it, Palermo 2025, pp. 94) che costituisce una nuova edizione, ampliata, di una precedente pubblicazione con lo stesso titolo del 2014.

La domanda più spontanea è facile da immaginare: il gioco vale la candela? La mia risposta – da lettore molto “medio” che non ha nessuna pretesa di critica letteraria – è senz’altro affermativa. E lo è in base a un criterio talmente elementare da poter risultare rozzo: i testi di narrativa o avvincono (suscitandoti il desiderio di leggerli rapidamente sino alla fine) o ti annoiano (e, dunque, per quanto ti riguarda, si sarebbe potuto risparmiare la carta necessaria a stamparli). 

Le pagine di Droga mi hanno afferrato sin dal primo racconto – Passeggiata – che, vergato con una scrittura elegante ma non ricercata, lineare, pulita riserva un colpo di coda finale intriso di tenerezza contagiosa.

Più triste, quasi tragico, il racconto Ma quanto parli? che dà il titolo all’intera raccolta: un’immersione nel mondo della miseria materiale e morale in cui, nonostante i decenni trascorsi dall’epoca in cui sono ambientate le vicende, continuano ad arrancare troppe fasce sociali.

Con Il messaggero l’autore - come avverte egli stesso nella “Introduzione alla lettura” – prova a “cimentarsi col genere giallo”, a “giocare con la suspence e la tensione”, a “crearla e a trasmetterla”: e, a mio sommesso avviso, ci riesce.

 Il quarto racconto, Totò l’Arabo  – più una breve cronaca che una fiction – mi è risultato il meno toccante, nonostante la vicenda narrata sia in sé oggettivamente patetica. Intrigante invece Metafora, ultimo racconto (aggiunto come quinto, a dispetto del titolo della raccolta, in questa nuova edizione), nel quale  Droga, accogliendo la sfida di un docente universitario di scrivere un raccontino in non più di venti righe, prova a “trattare temi anche pesanti, tristi, violenti ma in modo poetico e, per questo, catartico, senza mostrare gli aspetti più duri dell’evento drammatico”.

In una pagina di congedo l’autore ringrazia i lettori per il tempo dedicato a queste storie: “chi parla molto per paura del silenzio e chi, senza parlare, riesce a dire tanto, chi ha aspettato per tanto tempo qualcosa che non è arrivato, chi ancora non smette e non smetterà mai di aspettare”. Non pochi lettori, suppongo, ricambieranno – come me – il ringraziamento.

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

Per la versione originaria cliccare qui:

https://www.girodivite.it/4-racconti-anzi-5-di-Valerio-Droga.html

 

giovedì 20 novembre 2025

I PARADOSSI DEL TURISMO IN SICILIA

 

Nel Medioevo a spostarsi erano il pellegrino, per mettere alla prova la sua fede, e il mercante, per commerciare. Nella Modernità, soprattutto nei secoli XVIII e XIX, appare il viaggiatore, che parte per luoghi conosciuti attraverso il filtro della letteratura e della pittura: il voyage en Italie diventa un must per intellettuali e artisti europei.

Dagli anni Sessanta del secolo scorso queste figure ‘classiche’ vengono sostituite dal turista nel quale avviene un’inversione di prospettiva: più che la méta, gl’interessa come arrivarci (con che mezzo, in quanto tempo, con quanti soldi, in compagnia di chi…). La riprova? Raramente un visitatore sceglie dopo un’attenta documentazione su ciò che meriti attenzione, spesso preferisce fidarsi della pubblicità più accattivante. Con effetti un po’ paradossali (di cui in Sicilia non mancano gli esempi): luoghi sconosciuti, individuati come mete incantevoli, attirano tanti turisti da perdere le caratteristiche naturali e antropologiche originarie. Un equilibrio fra rispetto per il genius loci e opportunità di lavoro è tanto necessario quanto arduo.

Augusto Cavadi

“Gattopardo/Sicilia”

Agosto 2025

martedì 18 novembre 2025

UN'INTERPRETAZIONE DEL POST-TEISMO: INTERVISTA DI GIORDANO CAVALLARI A DON FERDINANDO SUDATI

 Sull'ottima testata on line (gratuita, a contributi liberi) www.settimananews.it dei Dehoniani di Bologna , dopo un'intervista sul post-teismo a Claudia Fanti, ne è sta pubblicata un'altra a don Ferdinando Sudati, che ha provocato una pioggia di commenti (alcuni sensati e pertinenti anche quando critici verso il teologo lombardo, altri da tromboni che danno per scontati proprio quei presupposti che il post-teismo ritiene ormai crollati).

Qui di seguito il link all'intervista e un mio commento (che si trova, anche se tra molti altri, anche sul sito del periodico bolognese):

Don, anche tu sei “post-teista”? - SettimanaNews

Un grazie immenso a don Ferdinando Sudati, a Giordano Cavallari e “Settimana News” per questa intervista che dà dignità di parola a uno “scisma sommerso” (Pietro Prini) ormai esteso quanto la cattolicità. E grazie a tutte le persone che sono intervenute al dibattito, dimostrando perciò stesso che esso non è privo di fondamento: non penso, infatti, che esse avrebbero perso tempo ed energie intellettuali per commentare un testo sul terrapiattismo o sulla verginità di Trump.
Se posso dare un contributo telegrafico mi pare che la chiave stia in un bivio iniziale: la Bibbia è un patrimonio di nozioni su Dio, l’uomo, la storia (come ha interpretato la Chiesa dal IV secolo in poi) o di testimonianze viventi, esistenziali, etiche (come a molti biblisti sembra ovvio)? Per citare Galileo Galilei: ci dice “come è fatto il cielo” oppure “come si vada al cielo”? Gesù, in particolare, rivela verità inaccessibili alla mente umana (come insegnato dai Padri e dai Dottori medievali) o incarna con intensità la “via” dell’agape (come a molti biblisti sembra ovvio)? Personalmente ero molto più felice quando la pensavo come il Magistero “infallibile” di Santa Romana Chiesa, ma studiando un po’ di seria teologia ho dovuto ammettere che ero dentro una bolla di consolante illusione. Da quarant’anni ormai ho scelto la verità (che è più degna di qualsiasi falsità, sia pur a fin di bene) e rinunziato al conforto delle bella favola di un Essere infinito “incarnatosi” in maniera unica, inedita, incomparabile e insuperabile in una persona (Gesù di Nazaret) vissuta dopo 13 miliardi e mezzo di vita dell’universo, su un microscopico granello (la Terra) fra miliardi di pianeti facenti parte di una fra miliardi di galassie sparse nello spazio…(Il paradosso è che il titolare di questo miracolo dei miracoli non si è mai dichiarato divino né tale è stato considerato dai discepoli e dagli apostoli per almeno cento anni dal suo passaggio terreno).

venerdì 14 novembre 2025

CLAUDIA FANTI A PALERMO DOMENICA 16 NOVEMBRE 2025 DALLE ORE 11,00 IN POI...

 Le scienze (biologia e fisica in primis) possono dialogare proficuamente con le spiritualità contemporanee (specie post-teistiche)?  E’ questo il tema dell’ultimo libro di Claudia Fanti, “A casa nel cosmo. Per una nuova alleanza tra spiritualità e scienza”, Gabrielli editore.

L’autrice, nota anche come co-direttrice della Collana “Oltre le religioni” (i cui titoli sono pubblicati dalla stessa casa editrice Gabrielli) sarà a Palermo, presso la “Casa dell’equità e della bellezza”, ospite del “Centro esperienziale di teologia laica”, domenica  16 novembre 2025 per una Giornata di riflessione e confronto sul tema del volume dedicato alla ecologia in senso ampio e profondo.

Il programma prevede che ci si incontri, per l’accoglienza reciproca e la sistemazione in sala, alle ore 11,00. E’ tollerata, al massimo, mezz’ora di ritardo perché alle ore 11,30 in punto si spengono i citofoni esterni (ci scusiamo in anticipo per i ritardatari rispetto al…ritardo massimo consentito). Dalle 11,30 alle 13,30 vi sarà una prima sessione con Claudia Fanti, dopo la quale chi vorrà potrà restare a condividere sulla tavola qualcosa per un sobrio pranzo condiviso. Al termine della pausa, dalle ore  15,00 alle ore 17,00 è prevista una seconda sessione di dialogo in cerchio.

Chi desidera leggere una presentazione breve del libro di Claudia Fanti può cliccare qui: Ecocidio della Terra? per scongiurarlo essenziale l'unità fra scienza e coscienza - Zero Zero News

Chi volesse un’analisi più articolata del medesimo libro può cliccare qui:

Augusto Cavadi, il blog: CLAUDIA FANTI PER L'ALLEANZA FRA SCIENZE E SPIRITUALITA'

Non è prevista nessuna quota di partecipazione, ma è gradito nella cassettina dell’ingresso un contributo libero da parte di chi desideri partecipare alle spese di manutenzione della “Casa dell’equità e della bellezza”.

giovedì 13 novembre 2025

ANTONIO MINALDI DAL "SESSANTOTTO" ALL'IMPEGNO ODIERNO NEL MOVIMENTO PER LA PACE

 

“Il mio personale rapporto tra violenza e non violenza inizia negli anni Settanta (…). E’ il tempo della grande contestazione (…). Iniziato che ero un timido ragazzino, curioso di capire il mondo entro i venti di rivolta che lo animavano, e concluso da adulto nelle dure lotte del Settantasette col ruolo riconosciuto di leader del movimento studentesco e col soprannome, sicuramente significativo, di <<Molotov>>”: così, sin dalla prima pagina, si presenta Antonio Minaldi, autore del recente Gandhi ad Auschwitz. Elogio della Nonviolenza (e sue problematiche), Multimage, pp. 99, euro 10,00. “L’adesione all’ipotesi della lotta armata come strategia politica era lo spartiacque tra noi che ci consideravamo i veri rivoluzionari e coloro che avevano tradito i vecchi ideali, consegnandosi al nemico con sbiaditi discorsi riformisti” (pp. 7 – 8). Da allora passa, non invano, mezzo secolo: intreccio di altre esperienze politiche, di viaggi per il mondo, soprattutto di letture e di riflessione. L’esito, abbastanza recente, di questo itinerario è l’adesione “alla teoria e alle pratiche della Nonviolenza” (p. 9), non solo come “scelta di vita” ma anche come “strumento privilegiato, costitutivo e strategico, di una scelta politica non qualsiasi, ma ‘rivoluzionaria’, rivolta cioè alla capacità fattuale di abbattere un potere dominante, violento e armato, votato al sopruso e alla guerra” (p. 10).

Trovo molto significativa questa testimonianza del coetaneo Minaldi e – devo confessare – anche confortante per quanti, sin dal Sessantotto, ci siamo convinti che la società cui dedicare la totalità delle nostre energie fosse di “liberi, uguali e fraterni” e che avvicinarvisi con “dittature” più o meno terroristiche fosse un modo per allontanare la méta (dal momento che senza “libertà” e “fraternità” tutto ciò che si ottiene è la sostituzione delle ineguaglianze economiche con le ineguaglianze di potere, pervertendo – per citare Ignazio Silone – la dittatura del proletariato in dittatura sul proletariato ). Da allora infatti la nostra posizione di “amici della Nonviolenza” che non hanno la sfrontatezza di qualificarsi come “nonviolenti” è stata ed è bersaglio di tiri incrociati: da parte dei “duri e puri” che, di frazionismo in frazionismo, sono arrivati alla divisione dell’atomo e da parte dei “realisti” ben inseriti nello status quo (spesso ex-rivoluzionari pentiti) che ci accusano di ingenuità “utopistica”.

Ciò premesso e chiarito, mi pare doveroso aggiungere che il lodevole scritto di Minaldi non è privo di sviste storiche né di lacune né di passaggi molto opinabili.

Quando parlo di sviste mi riferisco ad asserzioni come: all’epoca di Marx “il concetto di Nonviolenza, così come la potenza del femminile, come strumenti di lotta politica capaci di incidere nei rapporti di forza non avevano ancora fatto il loro ingresso nella storia” (p. 63). Senza risalire lontano per millenni sino a Socrate, Buddha, il Taoismo, Gesù e neppure per secoli sino a Erasmo da Rotterdam , Voltaire e Kant (autori di cui si devono riconoscere almeno semi rilevanti di rifiuto della logica della gestione violenta dei conflitti) mi sembra opportuno notare che Marx (nato nel 1818) è stato un contemporaneo di Henry David Thoreau (nato nel 1817) e di Lev Tolstoj (nato nel 1828): la Nonviolenza, “antica come le montagne” (Gandhi), è stata davvero a disposizione di chi ha avuto il desiderio di vederla!

Un’altra svista non secondaria per rilevanza mi pare l’identificazione di “aggressività” (che è un dato fisiologico, genetico, necessario alla sopravvivenza del soggetto) e “violenza” (che è un dato patologico, culturale, nocivo alla sopravvivenza dell’individuo e della sua specie): la violenza e la nonviolenza sono due modi alternativi di gestire, di canalizzare, di istituzionalizzare l’aggressività. Dunque non è esatto affermare che “violenza e Nonviolenza ci appartengono per natura” (p. 70) dal momento che, invece, tendenze innate (o acquisite nei millenni di storia evolutiva) sono – “in un continuo mediarsi” (ivi) - la pulsione aggressiva alla competizione  e la pulsione alla cooperazione solidale.

Una delle conseguenze di questa (inesatta) identificazione di “aggressività” e “nonviolenza” mi pare sia l’affermazione secondo cui - posto che “la guerra” sia “un dato emblematico dei modi che in ogni epoca storica hanno caratterizzato la violenza” (p. 73) – “lo scontro armato e le migrazioni violente e predatorie dei popoli debbano essere considerati come dati senza i quali la storia umana non si sarebbe neppure resa possibile” (ivi). Ma è davvero così? Se si concede questa retrospettiva allo storicismo hegeliano non si dovrebbe condividere la prospettiva della “fine della storia” qualora l’evoluzione umana ci portasse a escludere come un tabù il ricorso alla guerra? Direi che la storia umana non sarebbe stata possibile nel passato e non lo sarebbe nel presente e nel futuro  senza conflitti, senza divergenze di sentimenti e di umori, senza dialettica di idee e di interessi; ma non senza scontri bellici (o comunque violenti, tesi all’annichilimento o per lo meno alla sottomissione dell’altro). Senza le guerre ci sarebbe stata un’altra storia, non  l’impossibilità radicale del configurarsi di una storia. Questa interpretazione non esclude che, a posteriori, si possa constatare che le guerre – in sé non necessarie né proficue – abbiano prodotto non “solo morti e distruzioni”, ma anche “forme di scambio commerciale e culturale”(ivi): si tratta, appunto, di “effetti di socializzazione secondaria” (ivi) che si sarebbero potuti ottenere, come si spera possa avvenire quando saremo progrediti a un livello più alto di civilizzazione, anche senza guerre.

Tra le lacune mi sembra evidente l’assenza di riferimenti a tesi che ormai sono ritenute fondamentali per qualsiasi delle possibili versioni della nonviolenza, quali ad esempio la dicitura satyagraha (“insistenza della verità”) in coppia, se non in sostituzione, di ahimsa (“non nocenza”). Infatti molti interrogativi che l’autore si pone non avrebbero, a mio sommesso avviso, ragion d’essere se si chiarisse che la proposta gandhiana (e non solo) non è soltanto “negativa” (astensione dall’esercizio della forza fisica e militare) ma anche, e soprattutto, “positiva” (tentativo di raggiungere la coscienza dell’avversario affinché accetti di gestire il conflitto senza ricorso alle armi). Questa mia osservazione specifica può valere, più ampiamente, per l’intero libro: da un neofita mi sarei aspettato almeno qualche riferimento alla letteratura primaria e secondaria della ormai sterminata bibliografia sulla nonviolenza dove molte “problematiche” che la concernono sono state tante volte focalizzate e (per quanto possibile in un campo così accidentato) risolte.

Tra i passaggi opinabili segnalerei, innanzitutto, le righe in cui – più volte – si contrappone l’opzione della Nonviolenza al “diritto di resistenza” (p. 47). Qui sarei molto più chiaro: la Nonviolenza o è un modo di praticare la resistenza o non serve a nulla. Dunque la vera contrapposizione è fra il “diritto alla resistenza, anche nelle sue forme estreme che possono prevedere l’uso della lotta armata” (ivi)  e il “diritto di resistenza” con tutte le molteplici tecniche elaborate e sperimentate sul campo dalla tradizione nonviolenta. Personalmente sono convinto (per quel che ne so in sintonia con i padri fondatori della Nonviolenza) che reagire con la violenza a una ingiustizia palese (ad esempio l’invasione del proprio territorio da parte di un esercito straniero) sia preferibile all’inerzia passiva; ma che molto preferibile alla reazione violenta sia la resistenza nonviolenta da parte di una popolazione preparata da anni a simili eventualità (e dunque allenata agli scioperi, i boicottaggi, la disobbedienza civile, la renitenza all’arruolamento forzato etc.: va in questa direzione la richiesta avanzata da anni dal Movimento Nonviolento dell’istituzione di un “Ministero della pace” che preveda l’addestramento di un vero e proprio ‘esercito’ per la “Difesa popolare nonviolenta”). Se questo non si afferma con chiarezza si può dare l’impressione che la Nonviolenza sia un’ottima soluzione nelle situazioni ‘moderate’, ma vada messa nell’armadio in attesa di tempi migliori quando il gioco si fa serio.

Queste incertezze nell’esposizione di Minaldi riflettono, probabilmente, un’impostazione di fondo per lo meno problematica: la dicotomia fra “etica” e “politica” e l’attribuzione della scelta nonviolenta essenzialmente alla prima sfera. In tale scenario, infatti, è inevitabile che certi principi etici – in sé intoccabili – vadano poi declinati nella prassi storica concreta con elasticità. Ma è una prospettiva corretta? Personalmente ritengo che l’adozione della Nonviolenza debba essere, prima di tutto ed essenzialmente, una scelta pratica, strategica, conveniente utilitaristicamente: non possiamo agganciare a una determinata visione etica perché l’agganceremmo a un gancio su cui è arduo trovare consenso lungo i secoli e alle varie latitudini del pianeta. Non c’è dubbio – e qui valorizzerei il discorso di Minaldi e dei tanti che sul punto la pensano come lui  - che la fedeltà al metodo nonviolento può essere incoraggiata da certe etiche e scoraggiata da altre: come non essere d’accordo con l’autore quando inserisce la nonviolenza come prassi politica in una più ampia prospettiva di rifiuto della violenza nei confronti della natura (ecocidio), delle donne (patriarcato), delle fasce sociali sfruttate (capitalismo attuale)  e degli altri animali (consumo delle carni)? Personalmente mi ritrovo in pieno in questa fondazione etica a trecentosessanta gradi, ma mi guarderei bene dal presentarla come l’unica accettabile. Il rapporto della nonviolenza con una certa etica è a mio avviso analogo al rapporto della nonviolenza con una certa religione: in Gandhi, ad esempio, con il suo induismo. Che è una fede altamente nobile, se vogliamo particolarmente consona con una postura nonviolenta nel mondo, ma non certo ad essa legata a doppio filo: si può essere nonviolenti senza essere induisti (o gianisti o cristiani) e si può essere induisti  (o gianisti o cristiani)  senza essere nonviolenti.

Augusto Cavadi

www.augustocavadi.com

Per la versione originaria illustrata cliccare qui:

https://www.zerozeronews.it/per-una-elaborazione-esistenziale-e-politica-del-sessantotto/

sabato 8 novembre 2025

MERCOLEDI' 12 NOVEMBRE AL "GRAMSCI" DI PALERMO DISCUTIAMO DI GIORNALISMO IN TEMPO DI GUERRA

L’ultimo libro di Andrea Cozzo, Media di guerra e media di pace sulla guerra in Ucraina. Promemoria e istruzioni per il futuro (Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 190, euro 17,00) è dedicato innanzitutto ai professionisti della comunicazione, ma, più ampiamente, a tutti noi lettori, ascoltatori e spettatori. L’autore, professore di Lingua e letteratura greca all’Università di Palermo, è impegnato da decenni nello studio della nonviolenza, da cui ha tratto molteplici frutti: sia volumi (Conflittualità nonviolenta. Filosofia e pratiche di lotta comunicativa con Mimesis, sintetizzato nel più recente  La nonviolenza oltre i pregiudizi. Cose da sapere prima di condividerla o rifiutarla con le edizioni Di Girolamo); sia Laboratori universitari con crediti formativi riconosciuti e Corsi di formazione dedicati a Forze dell’Ordine; sia con azioni dirette in varie situazioni di conflitto  (talora non poco dolorose).

Il volume è distinto in tre parti.

La fotografia della situazione

La prima fotografa la situazione in corso: “il racconto mediatico della guerra in Ucraina, fin dal 24 febbraio 2022, è stato l’apogeo della violenza culturale perpetrata quotidianamente e senza mezze misure, sulla base del triplice principio (enunciato da Johan Galtung) D- M – A:  Dicotomizzazione («Noi» vs. «Loro»), Manicheismo (il Bene – il Male), Armageddon (la Vittoria militare è l’unica soluzione)” (p.19). Vengono diffuse notizie false, a cui – se inevitabili – seguono mezze smentite: “ciò che in tempi di pace sarebbe immediatamente percepito come un’ovvia sciocchezza, in tempi di guerra, sotto il fuoco compatto del giornalismo di fazione, diventa la semplice normalità” (pp. 49 – 50). In prossimità di una guerra i legami fra potere politico e organi di informazione si fanno più stretti. Karl Kraus ha sintetizzato il fenomeno con la sua proverbiale icasticità: “Come viene governato il mondo e com’è che viene condotto in guerra? Dei diplomatici ingannano dei giornalisti e, quando poi leggono il giornale, finiscono col credere alle proprie menzogne”. Una volta che la guerra sia dichiarata, il connubio non si scioglie, anzi si rafforza in un condizionamento reciproco che si travasa in condizionamento dell’opinione pubblica: chi osi criticare le scelte del governo – a partire dalla scelta di entrare in conflitto armato – è accusato di tradimento e, dunque, la maggior parte degli addetti ai lavori o alza il tono della voce per guadagnare medaglie come difensore dell’onor di Patria o (se nutre dei dubbi sull’entusiasmo bellicistico) previene la condanna con l’autocensura. Risultato: “I media si costituiscono come monolitici «media di guerra»” (p. 10), i giornalisti si considerano e vengono considerati “militari senza divisa”(p. 48)  e  “l’informazione” – parafrasando Carl von Clausewitz  – diventa “guerra combattuta con altri mezzi”.

Indicazioni terapeutiche

Ma Cozzo non si limita alla diagnosi dei mali: la seconda parte del volume (inspirata al principio “Un altro giornalismo è possibile!”) è infatti dedicata alle indicazioni terapeutiche per transitare (qualora se ne veda la necessità e se ne abbia la volontà) “dal giornalismo di guerra al giornalismo di pace”). Di queste indicazioni l’autore offre un’elencazione più estesa in 17 “regole” (pp. 136 – 141) proposte da Jake Lynch  e Johan Galtung  nonché una lista più sintetica in 10 “regole” (pp. 141 – 142) predisposta dai due medesimi studiosi. Per brevità riporto qui un’elencazione ancora più sintetica di 5 punti fissati dal professore israeliano Dov Shinar:  “1. Esplorare le circostanze e i contesti in cui nasce un conflitto, e presentare cause e ipotesi da diversi punti di vista (…); 2. dare voce alle opinioni di tutte le parti coinvolte; 3. offrire soluzioni creative per la risoluzione dei conflitti (…); 4. smascherare le bugie (…) di tutte le parti, e rivelare gli eccessi commessi e le sofferenze subite da persone di ogni fazione; 5. dedicare più attenzione alle storie di pace e agli sviluppi post-bellici” (p. 120). 

Due questioni di fondo

Questo libro, nato chiaramente dal crogiuolo della drammatica cronaca dei nostri giorni, non è un instant-book con la data di scadenza ravvicinata. Esso infatti, con passo induttivo, risale dal “basso”  della scottante attualità all’  “alto” di tematiche di fondo e di lungo periodo, come dimostrano i due allegati che costituiscono la terza e ultima parte del volume: Prontuario di azione nonviolenta di fronte alla guerra e Democrazia, democratura e nonviolenza. Impossibile sintetizzare in poche righe la ricchezza delle informazioni e soprattutto delle argomentazioni offerte dall’Autore anche in questi due testi che completano opportunamente un libro che solo uno studioso di grande preparazione e di ancor più grande onestà intellettuale poteva approntare come contributo al dibattito pubblico. É vero che, nell’epoca del mordi-e-fuggi, non saranno molte le persone che si vorranno regalare qualche ora di riflessione critica sulle tragedie planetarie in atto, preferendo il ruolo di tele-tifosi davanti a uno schermo televisivo o di inter-nauti appollaiati su una tastiera da cui ‘sparare’ sentenze e slogan. Ma è altrettanto vero che quelle poche persone saranno grate a Cozzo perché, ancora una volta, nel frastuono delle urla da un fronte all’altro (e viceversa!), ha saputo interporre parole meditate, meritevoli di una pausa silenziosa d’ascolto.

Augusto Cavadi

Per la versione originaria illustrata cliccare qui:

https://www.pressenza.com/it/2025/11/media-di-guerra-e-media-di-pace/





venerdì 7 novembre 2025

ELIO RINDONE RILEGGE MARCO D'ERAMO: LA GUERRA INVISIBILE DEI POTENTI CONTRO I SUDDITI

E' on line (scaricabile gratuitamente) l'ultimo numero della bella rivista di alta divulgazione "Dialoghi Mediterrarnei" dell'Istituto euro-arabo di Mazzara del Vallo (TP). 

Tra altri articoli degni di particolare interesse segnalo questa recensione, a firma di Elio Rindone, del volume di Marco D'Eramo, Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi, Feltrinelli, Milano 2020:

https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/il-premio-nobel-per-leconomia-uninvenzione-neoliberista-che-ha-cambiato-il-mondo/

mercoledì 5 novembre 2025

PRESENTAZIONE ON LINE DEL VOLUME DI M. FOX "IN PRINCIPIO ERA LA GIOIA"

 Carissime/i,  l' Associazione Liberare l'Uomo di Treviso,  invita tutti a partecipare gratuitamente all'ultimo Incontro online  (su Zoom e su YouTube)  sui Temi del Convegno "OLTRE IL PECCATO, IL DONO DELL'IMPERFEZIONE" concluso da poco. 

 La sera di   Giovedì 6 novembre 2025,     dalle ore 21:00   alle ore 22:30    (collegamento su Zoom alle ore 20:45, avvio su YouTube alle ore 21:00)     si terrà il quinto ed ultimo Incontro online in programma, dal titolo:       

 In Principio era la Gioia: l'Original Blessing secondo Matthew Fox                                       

 con      Augusto Cavadi.

   Per iscriversi a questo incontro su Zoom, occorre compilare il format che trovate al seguente link: https://us02web.zoom.us/meeting/register/Sna5moeXRqWJP7EZklv6Dg#/registration  

La partecipazione è gratuita e sempre aperta a tutti.   E' tuttavia necessario - per motivi di sicurezza - che tutti coloro che desiderano partecipare via Zoom si siano prima iscritti alla video conferenza, possibilmente entro le ore 18:00 del giorno dell'incontro. Successivamente, entro il pomeriggio dello stesso giorno o anche poche ore prima dell'inizio dell'Incontro, gli iscritti riceveranno il link utile per il collegamento.  Per seguire gli incontri - che avranno effettivo inizio la sera alle ore 21:00 - vi raccomandiamo in ogni modo di collegarvi su Zoom sempre 15 minuti prima, alle ore 20:45.    Segnaliamo inoltre che al momento su Zoom  abbiamo il limite di 97/98 posti ( il sistema raggiunto questo numero non accetta più nessuno ), per cui in generale è importante che si iscriva a Zoom chi è sicuro di poter partecipare, altrimenti occupa posti che potrebbero essere utilizzati da altri.   E' comunque ugualmente possibile, senza iscrizione e senza limiti di numero, seguirci in diretta streaming sulla piattaforma YouTube, all'interno del 'canale' Youtube di Liberare l'Uomo.   Per eventuali domande da porre al relatore durante l'incontro è possibile utilizzare sia la chat di Zoom, sia la chat di YouTube.   Entro pochi giorni dall'evento (non appena sarà pubblicato) potrete poi sempre ritrovare liberamente la video-registrazione dell'avvenuto Incontro sul 'canale' Youtube di Liberare l'Uomo, all'indirizzo:     https://www.youtube.com/c/LiberareLuomo   

  Attraverso la condivisione di questo messaggio potete coinvolgere altre persone interessate.  

Vi aspettiamo in tanti all'incontro online di giovedì 6 novembre, che chiude gli approfondimenti sul tema del recente Convegno! Per noi, per voi - e per quanti altri vorranno partecipare - sarà ancora un'occasione di approfondimento e di crescita.  Grazie a tutti per l'attenzione, i nostri più cordiali saluti e arrivederci a presto! 

 Il Direttivo dell'Associazione Liberare L'Uomo   

Per informazioni: tel. cell.: 338 1104831  info.liberareluomo@gmail.com  org.liberare@gmail.com  https://liberareluomo.it/siteon/    https://www.youtube.com/c/LiberareLuomo

lunedì 3 novembre 2025

CLAUDIA FANTI PER L'ALLEANZA FRA SCIENZE E SPIRITUALITA'


AVER CURA DELLA TERRA: LA PREOCCUPAZIONE CHE DOVREBBE UNIRCI

La Modernità ha spezzato in tre l’approccio dell’essere umano al mondo: l’intuizione mistico-poetica, il ragionamento filosofico, la misurazione scientifica. Dal Seicento a l’altro ieri i tre mondi, separati anche nell’ordinamento accademico, si sono guardati in cagnesco o – peggio ! – si sono ignorati.

Il recente, appassionato e appassionante, libro di Claudia Fanti,  A casa nel cosmo. Per una nuova alleanza tra spiritualità e scienza (Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano 2025), dimostra, con una messe di esemplificazioni, che da alcuni decenni non è più così. Le scienze “dure” (fisica e biologia in primis), dopo aver saltato brillantemente molti ostacoli, si sono trovati davanti degli interrogativi radicali: come ha avuto origine questo universo così immenso? Come si è formata, a un certo momento, la vita? Come alcuni viventi sono diventati coscienti di sé?  I filosofi (che, perduta la fiducia nella possibilità di saper rispondere a queste domande così impegnative, si sono quasi del tutto rassegnati a fare soltanto gli storici della filosofia) sono costretti a optare: o fare finta di nulla (lasciando agli scienziati il compito di rispondere, con gli attrezzi scientifici,  a domande meta-scientifiche) o  svegliarsi dal sonno scettico e ritornare al loro compito primario: ascoltare con docilità le acquisizioni più attendibili delle scienze e, senza contraddirle spocchiosamente, osare andare oltre in direzione di visioni complessive più ampie. In questa (eventuale, ancora solo incipiente) alleanza, fra ricerca scientifica e riflessione filosofica, c’è posto anche per la teologia di matrice biblica e coranica? Dipende da come si auto-interpreta. Se essa pretende di offrire un sovrappiù di conoscenze, un patrimonio di verità oltre-umane, non può che rassegnarsi all’irrilevanza progressiva. Non così, invece, se essa – scavando con cura nei suoi Testi fondatori e nella sua Tradizione bimillenaria – riscopre la sua ricchezza più profonda: che non è di ordine teoretico, esplicativo, ma etico, performativo. Se essa riscopre l’oggetto del suo studio – l’esperienza religiosa dell’umanità – come riserva di “spiritualità”.

Il libro di Claudia Fanti prova a fare chiarezza, in larga misura riuscendovi, su questi intrecci. Con un’informazione rigorosa, ma tradotta in linguaggio fruibile anche dai non specialisti, l’autrice dà conto delle attuali teorie cosmologiche che – oltre alcuni dati abbastanza accertati: l’universo attuale ha circa 13 miliardi e mezzo di anni – offrono ipotesi più o meno plausibili (revisioni e aggiornamenti del Bing Bang o teorie radicalmente nuove come l’esistenza di pluriversi sia contemporanei che in successione cronologica, ammesso che si possa parlare di tempo anche fuori dal nostro universo). Comunque “l’inizio dell’universo è qualcosa che è al di fuori della portata della nostra mente. È un miracolo che non si può eliminare”.

Fanti fa il punto anche sulla seconda questione radicale delle scienze contemporanee :  la comparsa della vita. Si passa dai minerali ai viventi in forza di una causalità per cui i fenomeni più semplici possono causare fenomeni più complessi oppure perché nel nostro universo si danno dei “comportamenti emergenti” e imprevedibili?

L’esame dell’universo in generale non può prescindere dal caso singolare costituito non solo dal vivente, ma più precisamente del vivente cosciente (o addirittura auto-cosciente). Il dato empirico incontrovertibile è che siamo dotati di un cervello: ma è ovvio che tale “turbinio di particelle dentro un cranio” crei “impressioni, sensazioni e sentimenti”? No, questo è piuttosto il terzo enigma fondamentale di chi fa oggi ricerca scientifica rigorosa. Ritroviamo anche qui gli schieramenti principali incontrati sulle due questioni precedentemente evocate: un orientamento riduzionista o fisicalista secondo cui “la coscienza è prodotta dal cervello, a sua volta controllato dalla fisica e dalla chimica” e un orientamento alternativo (che potremmo qualificare irriducibilista  o complessivista) basato sulla convinzione che “l’attività cerebrale in sé non è in grado di spiegare la coscienza”.

Il libro si conclude (se di conclusione si può parlare per un’autrice che dichiara di essere ancora in ricerca) evidenziando la valenza esistenziale, etica e politica (con un solo termine, da intendere però nell’accezione più ampia e meno confessionale possibile, “spirituale”): perché per lei conoscere è già un valore in sé, ma è anche il presupposto indispensabile per assumere la postura più adatta in relazione agli altri esseri viventi, gravemente feriti dalla follia dell’homo demens che arriva a minacciare la loro e persino la propria sopravvivenza. E non a caso cita l’Associazione ecumenica dei teologi e delle teologhe del Terzo Mondo: “solo con una visione nuova si potrà porre rimedio, se riusciremo ad arrivare in tempo, all’ecocidio”.

Augusto Cavadi

·      L’Autrice incontrerà i lettori del suo libro presso la “Casa dell’equità e della bellezza” di Palermo (via N. Garzilli 43/a) dalle 11,00 alle 13,30 di domenica 16 novembre 2025.

* Per la versione originaria illustrata basta un click qui:

https://www.zerozeronews.it/ecocidio-della-terra-per-scongiurarlo-essenziale-lunita-fra-scienza-e-coscienza/


sabato 1 novembre 2025

A PALERMO, NELLA PIAZZA DEL VILLAGGIO MILITARE, UN MESE DOPO IL VILLAGGIO DELLA PACE

 4 NOVEMBRE, OBIETTIAMO!

Anche quest'anno in occasione del 4 novembre, festa delle Forze Armate, istituzioni e apparati militari si preparano ad esaltare la guerra e il militarismo secondo la narrazione della  "vittoria" della Prima Guerra Mondiale, una “inutile strage”  il cui bilancio finale per l’Italia fu di oltre 650.000 soldati uccisi e più di un milione feriti, dei quali molti con gravi mutilazioni. A questi si aggiunsero più di 600.000 vittime civili a causa di bombardamenti e occupazioni militari, carestie ed epidemie. La maggior parte delle vittime erano contadini ed analfabeti esclusi dal diritto di voto e obbligati a farsi ammazzare o a uccidere nemici che non conoscevano, da un governo che li considerava solo carne da cannone. La guerra non risolse i problemi dell’Italia, anzi ne creò di nuovi e favorì l’avvento del fascismo. Anche l’Europa di allora si trovò davanti a conseguenze terribili, crisi economiche e sociali, con l’affermarsi del nazismo, militarista e razzista. Tutto poi precipitò nel disastro della Seconda Guerra Mondiale.
Attorno alla data del 4 novembre, ripristinata anche come Giornata dell’unità nazionale per intensificarne la portata, non c’è solo una distorta celebrazione storica ma anche il tentativo di una vera e propria propaganda bellica che si riversa nelle scuole e in molte (per fortuna con le debite eccezioni) celebrazioni istituzionali. Una propaganda tanto più insopportabile nel periodo che stiamo attraversando, che vede guerre sanguinose in varie parti del mondo, e due alle porte d’Europa, in Ucraina e Palestina, molte delle quali con un coinvolgimento diretto della produzione bellica italiana. Una propaganda che si intensifica anche per nascondere i conflitti interni fatti di impoverimento generale, aumento delle spese militari, repressione militarizzata nelle città imposte con decreti sicurezza, repressione del dissenso.
Purtroppo oggi soffia un nuovo vento di guerra. Giornali e mezzi di comunicazione sempre più spesso danno voce a iniziative di riarmo e di sostegno ad una mentalità bellicista e di allarme internazionale. I governi europei vogliono che i popoli si preparino alla guerra, anche reintroducendo il servizio militare obbligatorio, per tutti i giovani. L’ultimo in ordine di tempo è stato quello della Croazia, che segue la decisione già presa in Norvegia e Svezia. La Francia sta spingendo per allargare il reclutamento per il servizio militare volontario, come sta avvenendo nei Paesi Bassi. La Germania ha già approvato una Legge che favorisce e facilita il reclutamento, per ora volontario, nelle file dell’esercito.
E in Italia? Il dibattito è aperto e già si parla di attivare una forza di riserva, per arrivare ad un modello autonomo di difesa militare europea che considera la possibilità generalizzata di un servizio militare per donne e uomini come obiettivo di adeguamento numerico delle forze armate. L'Europa pensa alla leva per tutti come un passo necessario nel processo politico di unificazione militare europea e strategia di rafforzamento della cittadinanza nella difesa comunitaria. Questo atteggiamento è gravissimo: la prospettiva di una “guerra perpetua” con armi convenzionali e milioni di vittime civili o una irrimediabile catastrofe nucleare con lo sconvolgimento della civiltà e del pianeta.
Da tempo il Movimento Nonviolento ha trasformato la giornata del 4 novembre in un’importante occasione di riflessione e opposizione a tutti gli eserciti, contro tutte le politiche di riarmo, a sostegno degli obiettori di coscienza e dei disertori di tutte le guerre.
4 Novembre, non festa ma lutto” è stato ed è il nostro slogan da opporre alla retorica patriottarda.
La nostra proposta è la Campagna di Obiezione alla guerra, per dire no alla chiamata alle armi, alla mobilitazione militare, all’ipotesi di ritorno della leva obbligatoria. Ci dichiariamo da subito obiettori di coscienza, invitando tutti a sottoscrivere la Dichiarazione di obiezione di coscienza per respingere il disegno di chi vuole obbligare i nostri giovani a prendere il fucile e vestire la divisa.
Movimento Nonviolento Italiano
***
Il Centro territoriale di Palermo del Movimento Nonviolento sarà presente dalle 10 alle 20 di martedì 4 novembre 2025 al "Villaggio della pace" di piazza Castelnuovo. Si aggiungeranno altre tre associazioni operanti nella "Casa dell'equità e della bellezza": dalle 17 alle 19 il Gruppo "Sahaja" e dalle 17,30 alle 19,30 il "Gruppo Noi uomini a Palermo contro la violenza sulle donne". Previsti in scaletta interventi anche da parte di esponenti del "Laboratorio per la difesa e l'attuazione della Costituzione".
 

martedì 28 ottobre 2025

LA BIBBIA SECONDO CAZZULLO

Dopo le prime pagine del volumone di Aldo Cazzullo, Il Dio dei nostri padri. Il grande romanzo della Bibbia, HarperCollins, Milano 2024, ho avvertito un forte fastidio, al punto quasi da decidere di interromperne la lettura. Ma avrei sbagliato. Infatti, quando sono arrivato alla fine delle pagine, ho maturato un sentimento di tenerezza verso l’operazione editoriale.

Innanzitutto, il fastidio. Dopo aver dedicato più di mezzo secolo agli studi biblici, trovarmi di fronte a una lettura così naif, così ingenua, delle Scritture mi ha un po’ irritato. Lo stesso autore confida, sin dal “Prologo”, di aver ripreso in mano la Bibbia (di cui aveva “una memoria lontana, legata alle letture d’infanzia”) solo un anno prima della pubblicazione del libro: veramente una conferma, alla Karl Kraus, sulla presunzione dei giornalisti di spiegare alla gente ciò che essi per primi non hanno ben capito. Così Cazzullo riporta, senza battere ciglio, che Dio ha detto questo, ha fatto quell’altro; narra di  Abramo come fosse davvero un personaggio storico; di Davide come se davvero avesse abbattuto Golia con una fionda; di Giona come se davvero fosse finito per tre giorni dentro il ventre di una balena…Non c’è mai un dubbio: non da ateo o agnostico, ma neppure da professore gesuita dell’Istituto Biblico di Roma. Mai una precisazione sul “genere letterario” di un racconto: se si tratta di una narrazione che vuole essere storica o di una leggenda o di un’epopea o di una composizione poetica.

Però, man mano che leggevo, mi si è accesa una lampadina interiore. Può darsi che non avessi considerato con la dovuta attenzione il sottotitolo dell’opera: Il grande romanzo della Bibbia. Quando, nel “Prologo”, Cazzullo scrive che “la Bibbia è l’autobiografia di Dio”, subito aggiunge: “Per questo molti hanno pensato (e qualcuno ancora pensa) che sia stata scritta, o almeno ispirata, da lui”, ma non dichiara di essere fra questi “credenti”, pur senza escluderlo esplicitamente. A lui interessa la “trama” così come la ricevevano, senza troppi interrogativi, i “nostri padri” che – ignari di una “questione biblica” da affrontare con tutti gli strumenti delle scienze filologiche, esegetiche, storiche, archeologiche, ermeneutiche - non si scandalizzavano per i troppi passi che “suonano datati, fuori tempo, talora terribili: schiavitù, poligamia, massacri”. E’ un po’ come se presentasse una divulgazione dell’Iliade di Omero o dell’Eneide di Virgilio: per sapere non come davvero si sono svolte vicende del passato, ma “come funziona l’animo umano, di quanti vizi e quanto valore siamo capaci, quale sarà il nostro destino”. Insomma: per “un godimento dell’anima e della mente”.

Conclusione a cui sono pervenuto. Questo testo, di notevole successo, di Aldo Cazzullo può fare molto male o molto bene, a seconda dell’attrezzatura intellettuale del lettore. Può fare molto male a quanti, incuriositi dalla sintesi ben scritta, vorranno risalire alla Bibbia originale con la medesima ingenuità dei “padri”: infatti o l’accoglieranno come “parola di Dio” abbracciando il fondamentalismo già troppo diffuso in ambienti ebraici e cristiani; oppure la getteranno tra i rifiuti come uno dei testi più diseducativi della storia dell’umanità. Può fare bene, invece, a quanti non aspettavano il libro di Cazzullo per leggere la Bibbia, frequentandola da tempo con gli strumenti critici necessari, ma che grazie a questo saggio possono capire meglio le modalità della ricezione della Bibbia nella cultura occidentale e italiana in particolare.  Infatti, almeno sino alle generazioni in cui la Bibbia è stata ancora conosciuta (spesso solo a spezzoni nelle liturgie domenicali), essa è stata accolta alla lettera: è stata accolta proprio come Cazzullo la racconta, senza però l’avvertenza che si tratti di un “romanzo”. Dunque con l’effetto devastante di attribuire a Dio stesso una marea di comandi, divieti, riti, usi, costumi – talora istruttivi, talaltra disastrosi – frutto di popolazioni ancor meno evolute della nostra. Quanto sia pericoloso leggere la Bibbia senza sapere che si tratta di una “biblioteca”, composta da libri scritti nel corso di cinque/sei secoli in cui per ogni tesi si trova il suo contrario, lo aveva capito la Chiesa cattolica che, infatti, per secoli ne ha incluso le traduzioni in lingue moderne nell’elenco dei libri…proibiti! Ovviamente la mediazione, fra il singolo e la Bibbia, non può essere costituito da un Magistero che non dialoga con i ricercatori specialisti di ogni matrice culturale e che ha finito addirittura per autoproclamarsi “infallibile”; tuttavia un filtro che contestualizzi, spieghi, commenti è indispensabile. Almeno se non si vuole correre il rischio, come nel caso di mia nonna materna, di portarsi sino alla tomba un dubbio insistente che ebbe a confidarmi: “la Divina Commedia di Dante è davvero bella, ma non riesco a credere che davvero egli sia andato all’altro mondo e ne sia ritornato”.

Augusto Cavadi

* Per la versione originaria illustrata cliccare qui:

https://www.zerozeronews.it/la-bibbia-secondo-cazzullo/

 

  

domenica 26 ottobre 2025

TRE, ANZI QUATTRO RAGIONI PER CUI "ADISTA" NON DEVE MORIRE

La carta stampata, come tutto ciò che ha avuto una data di nascita (Gutenberg nel 1455), deve avere (per parafrasare Giovanni Falcone) una data di morte. Forse tocca alla nostra generazione constatarne il decesso. Infatti la crisi della stampa è ormai un fenomeno internazionale: mensili, settimanali, quotidiani – anche di rilevanza storica -  chiudono o tagliano drasticamente tirature e personale. Anche molte riviste scientifiche e culturali sono passate dalla versione cartacea alle edizioni on line e persino nella nuova veste più economica rischiano l’estinzione. Questa tendenza, in sé spiacevole, non va drammatizzata: scrivere e leggere sono attività appartenute a gloriose civiltà per almeno due millenni prima della stampa su carta e non c’è motivo di supporre che non continueranno nei prossimi. E comunque, anche se mettiamo a fuoco il passaggio antropologico epocale che stiamo vivendo, riterrei che non sia interpretabile solo in chiave negativa. Infatti, se da alcuni versanti registriamo perdite, da altri invece guadagni: il mondo dell’informazione transita dalla penuria all’abbondanza. La sua è una crisi di sovraproduzione. Da che si stentava ad avere informazioni anche su ciò che accadeva nel quartiere accanto o nel villaggio vicino, rischiamo di essere travolti da un flusso eccessivo di informazioni provenienti dai quattro angoli del pianeta. E non è solo questione di quantità, ma anche e soprattutto di velocità: perché recarsi all’edicola più vicina, per leggere sul giornale alle 8 di mattina le notizie del giorno precedente, se intanto le ho potuto apprendere in tempo reale mediante radio, televisione, computer, cellulare?

Premesso che, senza cedere alla devozione cieca nei confronti della tecnologia, non sarebbe né saggio né possibile limitarsi a rimpiangere un passato irrecuperabile, con postura adulta conviene interrogarsi su alcune criticità della transizione in atto, a mio parere sintetizzabili in tre passaggi principali.

 

Il difficile discernimento tra vero e falso

Prima questione: la marea di notizie da cui siamo invasi per così dire da ogni poro è indiscriminatamente attendibile, ‘vera’? Sappiamo quante istituzioni, organizzazioni, imprese hanno interesse a immettere nei circuiti dell’informazione dei dati solo parzialmente veri o addirittura interamente falsi. Esistono dei siti web e delle app che aiutano a smascherare le fake news: ma è probabile che il lettore medio (che già stenta a trovare il tempo fisico e psicologico per leggere un testo stampato o visionabile su uno schermo) abbia anche la pazienza di verificare, puntualmente, la fondatezza di ogni notizia? Ecco perché abbiamo bisogno di organi d’informazione di cui fidarci, da cui apprendere senza diffidenza, con cui costruire un rapporto amichevole e per questo rilassato: organi né perfetti né infallibili, ma di cui essere certi che non difendono per missione interessi economico-finanziari né promuovono per ‘partito’ preso questa o quell’altra fazione politica. Se “Adista” è stata ed è un organo del genere, non deve morire.

 

La selezione a monte delle informazioni

Una seconda questione: ammesso (e non concesso) che ci si possa alimentare solo di cibi sani – fuor di metafora: di dati corretti, di resoconti veritieri – sono essi tutti i dati che ci servirebbero o non costituiscono, piuttosto, il risultato monco di una selezione a monte? Come è noto, il monopolio mondiale dell’informazione è in mano a poche centrali a cui attingono, a cascata, i vari “canali” nazionali, regionali, locali. Abbiamo bisogno, dunque, di fonti giornalistiche capaci di scoprire storie, eventi, personaggi, tematiche che i padroni del mainstream scartano (perché li ritengono poco interessanti o poco funzionali o addirittura pericolosi), condannano all’oblio. Se “Adista” è stata ed è un organo del genere, non deve morire.

 

La riflessione critica sui dati ricevuti

Una terza questione: ammesso (e non concesso) che attraverso l’integrazione di varie fonti d’informazione e di contro-informazione si arrivasse a raccogliere un numero abbastanza ampio di dati, notizie, racconti attendibili, che potremmo farcene di una messe tanto abbondante? Non siamo dei meri registratori, degli archivi. La raccolta delle informazioni è solo una condizione preliminare, funzionale all’operazione mentale decisiva: il giudizio. Conoscere è il primo indispensabile passo: il secondo è ritornare su ciò che si è appreso, ri-flettere. Cosa pensare? Con che criteri valutare? Che atteggiamenti assumere eticamente? Quali opzioni politiche preferire? Abbiamo bisogno di andare oltre la “trasmissione” dall’emittente  A al ricevente  B, verso una qualche forma di “comunicazione” cha somigli a un dialogo o che addirittura si configuri in qualche rubrica come dialogo: abbiamo bisogno di leggere delle riflessioni che ci invitino a riflettere. Ovviamente alludo a una pedagogia sociale “indiretta” (direbbe Kierkegaard): che non prescriva ciò che si deve pensare, ma che testimoni come si possa pensare in libertà.  Se “Adista” è stata ed è una palestra del genere, non deve morire.

 

Da un giornalismo di guerra a uno di pace

In questi anni ci è stato riservato il triste privilegio di cosa significhi, in concreto, una stampa intrisa di ‘post-verità’, agli ordini di istanze gerarchicamente superiori e concentrata più a mobilitare gli umori che a stimolare l’esercizio del pensiero critico: è la stampa in tempo di guerre. Già in occasione della Prima guerra mondiale Karl Kraus notava, con la sua proverbiale icasticità, gli intrecci perversi fra governi e organi d’informazione: “Come viene governato il mondo e com’è che viene condotto in guerra? Dei diplomatici ingannano dei giornalisti e, quando poi leggono il giornale, finiscono col credere alle proprie menzogne”. L’essenziale, su questa tematica, l’ha scritto, in un libro appena pubblicato dalle edizioni Mimesis, un mio fraterno amico del Movimento Nonviolento, Andrea Cozzo: Media di guerra e media di pace sulla guerra in Ucraina. Promemoria e istruzioni per il futuro. Nella prima parte l’autore mostra, con una fitta serie di esempi tratti dalla stampa e anche dalle trasmissioni televisive in Italia, come “ciò che in tempi di pace sarebbe immediatamente percepito come un’ovvia sciocchezza, in tempi di guerra, sotto il fuoco compatto del giornalismo di fazione, diventa la semplice normalità” (pp.49 – 50). Infatti “i media si costituiscono come monolitici «media di guerra»” (p. 10), i giornalisti si considerano e vengono considerati “militari senza divisa” e “l’informazione” – parafrasando Carl von Clausewitz  – diventa “guerra combattuta con altri mezzi”. Nella seconda parte Cozzo espone, anche sulla base di una letteratura sull’argomento tanto ricca quanto ignorata, “le regole del giornalismo di pace in breve” (pp. 136 – 142), sintetizzabili nel compito di non prestarsi a nessuna demonizzazione del “nemico” e nello sforzo di farne “comprendere” il punto di vista (che non significa “condividerlo”).  Se “Adista” ha rispettato e rispetta tali indicazioni deontologiche, non deve morire.

Augusto Cavadi

QUI l'articolo originale:

https://www.adista.it/articolo/74698