29.11.2025
LA FEDE PIU’ CHE LE CREDENZE: MA QUALE FEDE?
Nella
recensione del volume di Edoardo Castagna, Ad extra. Cattolici e cultura: un
dibattito (Avvenire-Vita e pensiero, 2025, Milano, 15€ : vedi “Adista- Segni
nuovi”, 42, del 29.11.25: https://www.adista.it/articolo/74906), Walter Minnella e Gianfranco Poma, dopo aver
riportato una sintesi della situazione attuale della Chiesa cattolica del teologo milanese Pierangelo Sequeri (“molta
morale, poca comunità, zero cultura”) aggiungono che gradirebbero “sentire il
parere di qualche lettore”. Suppongo che la reazione della maggior parte
dei lettori non possa che essere di consenziente approvazione. Ma se è agevole
l’accordo sulla diagnosi, forse non lo è altrettanto sulle terapie possibili.
I
due autori della recensione, ad esempio, citano Marco Vannini che da decenni
propone di “distinguere la fede dalle credenze: queste ultime sono storiche, la
fede è metastorica (va al di là della storia)”. Così formulata mi risuona come
una ricetta perfetta. Ma cosa intendere per “fede”? Qui si prospettano - mi
esprimo per sommi capi – due vie principali.
Vannini,
come altri ammirevoli esponenti della medesima prospettiva, pensano alla vita
mistica in generale e a all’esperienza dell’identificazione con l’Uno-Tutto in
particolare. Questa interpretazione, degna del massimo rispetto, presenta a mio
parere alcuni limiti: a) non è biblicamente fondata (per quanto ne sappiamo né
i profeti né Gesù l’hanno adottata e proposta); b) non si presta ad essere
accolta da quelle aree sociali che si sono allontanate dalla Chiesa cattolica.
Chi si riconosce in tale interpretazione dovrebbe chiarire, con la massima onestà intellettuale, che
si tratta di una proposta teoretico-metafisica di ascendenze pre-cristiane (in
Occidente) ed extra-cristiane (in Oriente): dunque una proposta accettabile in
un’ottica di libertà pluralistica ma che non va considerata la migliore – anzi,
l’unica – modalità di vivere la “fede” cristiana.
Molto
più fedele ai dati biblici, e in particolare alla testimonianza del Gesù
narrato dagli evangelisti (canonici e non), è un’altra visione della “fede”:
l’atteggiamento di chi, aperto al volere divino, si dedica fattivamente alla
realizzazione del “regno di Dio” nella storia. La fede come solidarietà nei
confronti del debole, dell’oppresso, dell’emarginato: come autodonazione
gratuita, “a perdere”. Come agape. Questa interpretazione mi parrebbe
preferibile non solo perché più tipicamente (anche se non esclusivamente!)
cristiana, ma anche perché “laica” nell’accezione etimologica di “popolare”:
tale da poter essere accolta da fasce sociali indifferenti sia alla vecchia
tradizione della “catechesi” dottrinaria che alla fascinazione dell’unione
mistica.
Chiarita
la differenza fra i due “fuochi” andrebbero sciorinate una serie lunga di
precisazioni. Mi limito a due.
La
prima: non solo il papa “eretico” Francesco, ma anche l’ “ortodosso” Leone XIV
insistono nell’identificare la fede autentica con l’agape folle (vedi, ad
esempio, la prima Lettera apostolica del nuovo papa, Dilexi te
che liquida la falsa opposizione fra “verticale” e “orizzontale”: dedicarsi a
chi soffre è una scelta teologica, non un’opzione sociologica). Basterà questo per attrarre le masse in
esilio dai confini ecclesiali? Se la filantropia sarà praticata effettivamente
– e se sarà praticata senza la furbizia strategica di usarla come ponte per
riportare i fuoriusciti dentro l’Istituzione dogmatica e gerarchica – lo si può
sperare. Ma proprio il primato dell’amore a trecentosessanta gradi scompiglia
le carte, abbatte i confini: nessuno saprà mai chi è “dentro” e chi è “fuori”
e, alla fin dei conti, non avrà nessuna importanza saperlo.
La seconda precisazione tende a recuperare il valido, anzi l’indispensabile, dell’interpretazione “mistica”. Amare – ci ha insegnato molti decenni fa Erich Fromm – è un’arte. Le chiese, proprio se vorranno essere centrali operative di servizio alla società, dovranno essere contestualmente spazi di silenzio, di studio serio della Bibbia e di tutte le sapienze dell’umanità, di meditazione personale e comunitaria, di nuove liturgie depurate da ogni linguaggio “teistico”. La dimensione spirituale, culturale e cultuale, è una dimensione antropologica costitutiva: il cristiano, che in quanto tale è proiettato nella liberazione integrale dei fratelli di tutto il pianeta e del pianeta stesso, non può trascurare la radice e la fonte interiore del suo impegno. Per citare Knitter, Buddha e Gesù non solo non si escludono, ma si integrano vicendevolmente.
Augusto
Cavadi
2 commenti:
Leone XIV: celebra Nicea, che definisce Gesù "homoousios" con il Padre, ma non parla della persecuzione iniziata nei confronti degli ariani. "Dilexi te": facile ripetere che bisogna amare i poveri, ma sarebbe più efficace dire che le politiche di certi governanti che si dicono cristiani sono decisamente antievangeliche.
Politiche decisamente inconciliabili con il vangelo.
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