A
casa nel cosmo. Per una nuova alleanza tra spiritualità e scienza (Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano 2025) di
Claudia Fanti è un libro ingannevole. Infatti la scrittura scorrevole, elegante
ma non pretenziosa, con passaggi narrativi e poetici, illude sulla fruibilità
immediata dei contenuti. Che, invece, sono molto impegnativi ed esigono -
insieme a una conoscenza almeno sommaria dello status quaestionis di
diverse discipline (dalla fisica alla biologia, dalla filosofia alla teologia…)
- estrema, continua, attenzione. Insomma, sotto le apparenze di un testo gradevolmente
leggero, si nasconde un tentativo ambizioso di cui la nostra civiltà ha
necessità ma al quale pochissimi hanno il coraggio di dedicarsi: proporre un
qualche sguardo sinottico sul mondo, una qualche sintesi (per quanto
provvisoria) delle acquisizioni (per quanto parziali) offerte dalle indagini
specialistiche settoriali. E perché ci voglia molto coraggio nel gettarsi in
quest’impresa è intuitivo: se resto nel mio campo di studio, per altro sempre
più limitato, riduco il numero dei competenti che possano contestare le mie
micro-analisi; ma se, facendo tesoro di informazioni provenienti da varie aree
del sapere, provo ad abbozzare un quadro d’insieme, mi espongo alle critiche
più disparate. Eppure, senza questi tentativi di volare alto, di guadagnare prospettive
che in altre epoche si chiamavano “sapienziali”, a che ci serve la marea
straripante crescente e di dati, tesi e ipotesi di cui pullula il web? Lo so:
c’è il rischio di accontentarsi di sapere poco, pochissimo, quasi niente sul
Tutto. Ma non meno pernicioso il rischio opposto di sapere molto, moltissimo,
quasi tutto su un dettaglio che rasenta il niente. Trovare un equilibrio fra i
due pericoli non è facile, ma resta necessario.
Claudia
Fanti non si è sottratta alla difficile sfida e qualsiasi osservazione si possa
avanzare, su questo o quel passaggio delle sue pagine, va preceduta dall’onore
delle armi (intellettuali!): senza essere professionalmente né una scienziata
né una filosofa si è avventurata in un’ardua impresa, quasi a voler indicare
agli scienziati e ai filosofi un percorso che sarebbe loro compito
intraprendere (e che pochi – come Edgar Morin o Vito Mancuso – hanno l’ardire
di tentare). E lo ha fatto senza trascurarne la valenza esistenziale, etica e
politica (con un solo termine, da intendere però nell’accezione più ampia e
meno confessionale possibile, “spirituale”[1]):
perché per lei conoscere è già un valore in sé, ma è anche il presupposto
indispensabile per assumere la postura più adatta in relazione agli altri
esseri viventi, gravemente feriti dalla follia dell’homo demens che
arriva a minacciarne la stessa sopravvivenza. E non a caso cita l’Associazione
ecumenica dei teologi e delle teologhe del Terzo Mondo: “solo con una visione
nuova si potrà porre rimedio, se riusciremo ad arrivare in tempo, all’ecocidio”
(p. 18).
La
trama del volume
Vediamo,
innanzitutto, di ricostruire la mappa del volume, restituendone le
articolazioni principali (anche al prezzo, inevitabile, di trascurarne
contenuti in sé rilevanti).
a) L’ottica cosmologica
Il
punto di vista basilare è cosmologico: qual è il posto della Terra
nell’universo? E cosa sappiamo attualmente dell’universo in cui il nostro
pianetino è situato? Essa è comparsa più di 4 miliardi e mezzo di anni fa
(p.27) in una zona abitabile perché “né troppo vicina né troppo lontana dalla
sua stella” - il sole -, la quale è “situata alla periferia di una galassia di
media grandezza” (la Via Lattea) “composta da più di cento miliardi di stelle,
che a sua volta è solo una tra più di 100 miliardi di galassie dell’universo
osservabile” (p. 28).
Ma,
a sua volta, l’universo osservabile con i nostri strumenti attuali (che secondo
alcune stime costituisce solo il 5% della materia totale, di cui il 95% - appunto – è detta “oscura” in quanto
inconoscibile) (p. 103) ha un’età di poco meno di 14 miliardi di anni (ivi).
Una
prima (per altro capitale) questione riguarda la sua genesi. Su questo
le scienze sono consapevoli dei loro limiti strutturali: “l’inizio
dell’universo è qualcosa che è al di fuori della portata della nostra mente. È un miracolo che non si può eliminare” (p. 95). La
constatazione che “la realtà materiale” sia costituita al 99,9% di “vuoto”
suggerisce a sempre più numerosi studiosi la tesi che “l’universo nasce dal
vuoto”, ma un vuoto che “non è affatto vuoto, bensì inconcepibilmente ‘pieno’,
dal momento che in esso continuamente si creano tutte le particelle possibili”
(p. 96).
Una
seconda questione riguarda la storia dell’universo (e in particolare la
comparsa della vita): esso segue una causalità per cui i fenomeni più semplici
possono causare fenomeni più complessi oppure in esso si danno dei
“comportamenti emergenti” (p. 54) e imprevedibili?
Ma
non è solo il costituirsi della vita nell’universo ad aprire interrogativi
filosofici: lo è anche il dato, altrettanto certo, che questo universo, che “a
un certo punto è nato, a un certo punto avrà anche fine” (p. 48).
Anche
“sulla causa del decesso” esistono due principali “ipotesi”: un Big Crunch
causato dalla forza gravitazionale oppure il “Grande Strappo” causato da una
“energia oscura” agente in senso opposto a “tutte le forze che uniscono” (ivi).
In tutti i casi l’universo è condannato, per la legge dell’“aumento inesorabile
dell’entropia”, alla “morte termica” (p. 49). Ma a sua volta questo “sterminato
universo” in espansione “potrebbe essere solo una piccola isola all’interno di
uno spazio cosmico inimmaginabile” (p. 102): il “multiverso” (p. 101).
b) Lo sguardo biologico
“Circa
380mila anni dopo il Big Bang” si sono formati “gli atomi di idrogeno presenti,
in quantità variabili, in tutte le molecole organiche contenute nelle cellule”
(p. 37) che sarebbero comparse una decina di miliardi dopo sulla Terra: qui,
infatti, si registra (da circa “4 miliardi di anni”) (p. 34), un fenomeno di
cui sinora non si conosce l’origine: appunto la vita biologica. Tale fenomeno
impone di ampliare lo sguardo dalla fisica (sia sub-atomica che astronomica)
alla biologia molecolare, da cui apprendiamo che “tutte le forme viventi che
popolano i suoli, i mari e i cieli del nostro splendente pianeta azzurro e
bianco devono essere discese da un antenato comune, una specie unicellulare
ancestrale” (ivi). Questo “punto di partenza” unico (pp. 34 – 35) spiegherebbe
come mai, in tutti gli esseri viventi, si ritrovino le “due qualità
onnipresenti della vita”: la capacità di codificare, utilizzare e trasmettere
“l’informazione che dirige le funzioni che sostengono la vita” e “il
modo in cui le cellule sfruttano, immagazzinano e impiegano l’energia
necessaria per svolgere le funzioni vitali” (Brian Greene, cit. a p. 35,
sottolineature mie). La somiglianza tra tutti i viventi, dovuta ai due fattori
costitutivi della vita, è rafforzata dalla comunanza dei due “obiettivi
essenziali: vivere (e generare vita) e difenderci dal dolore (dai pericoli,
dalla fame)” (p. 37). Dunque la vita (potenzialmente contenuta “nelle viscere
di una stella”, Ernesto Cardenal cit. a p. 38) è “una sola” e “ogni specie è un
punto distinto lungo un continuum, come le diverse note sulla tastiera
di un violino” (Carl Safina, cit. a p. 37).
Il
fatto che nessuna vita, neppure elementare, sarebbe potuta apparire, se
l’universo fosse stato regolato da leggi solo minimamente differenti dalle
attuali, si presta a varie interpretazioni filosofiche: il “creazionismo
scientifico” che afferma l’evidenza di un “Disegno intelligente”
nell’evoluzione e vi vede una prova dell’esistenza di Dio (p.42) ; il
“Principio antropico” in “versione debole” secondo cui “l’universo e le sue
leggi non possono essere incompatibili con la nostra presenza come osservatori”
(ivi); il “Principio antropico” in versione “forte” secondo cui “l’universo
possiede proprio, fin dalla sua nascita, quelle proprietà che permettono alla
vita, o in altri termini agli osservatori, di svilupparsi al suo interno” (pp.
42 – 43); il “Principio antropico ultimo” in base al quale “deve
necessariamente svilupparsi una elaborazione intelligente dell’informazione
nell’universo, e una volta apparsa, questa non si estinguerà mai” (p. 43); la
teoria del “fortunato accidente, una felice, involontaria conseguenza delle
leggi oggettive e impersonali della natura” (p. 44); la teoria della “infinità
di universi”, “ciascuno con le proprie leggi e le proprie costanti fisiche”,
tra cui il nostro “universo in cui la vita è possibile” (ivi); la teoria
dell’evoluzione cosmica secondo “un processo di variazione casuale e selezione
simile a quello dell’evoluzione darwiniana” (p. 45).
c) Lo sguardo onto-teologico
Questa varietà di teorie scientifiche si presta ad altrettanto varie
teorie filosofiche che, schematicamente, si possono ridurre a tre: una qualche
forma di creazionismo che attribuisca all’azione divina la creatività
dell’universo (p. 58); un materialismo rigoroso che “riduce l’intera realtà a
particelle in movimento” (p. 55); un monismo ontologico che riconosca
all’origine della creatività dell’universo o un “Dio immanente” (S. Kaufmann)[2] o,
per lo meno, un “logos-physikos, rispetto al quale anche la nostra
creatività e la nostra autocoscienza non costituiscono alcuna differenza
assoluta o salto ontologico”(O. Franceschelli, p. 59).
d) Lo sguardo antropologico
L’esame dell’universo in generale non può prescindere
dal caso singolare costituito non solo dal vivente, ma più precisamente del
vivente cosciente (o addirittura auto-cosciente). Il dato empirico
incontrovertibile è che siamo dotati di un cervello: ma è ovvio che tale
“turbinio di particelle dentro un cranio” crei “impressioni, sensazioni e
sentimenti” (p. 69)? Ritroviamo anche qui gli schieramenti principali
incontrati su questioni precedentemente analizzate: un orientamento
riduzionista o fisicalista (maggioritario) secondo cui “la coscienza è prodotta
dal cervello, a sua volta controllato dalla fisica e dalla chimica” (p. 71) e
un orientamento alternativo, irriducibilista (?) o complessivista (?)
(minoritario) basato sulla convinzione che “l’attività cerebrale in sé non è in
grado di spiegare la coscienza” (pp. 72 – 73). All’interno di questo fronte
non-riduzionista si possono individuare, a loro volta, due prospettive
principali: una emergentivista (?) secondo cui “la coscienza emerge dal
cervello ma non è riducibile ad esso” (p. 74), essendo frutto di “una
misteriosa creatività per cui dal meno nasce il più” (p. 73), ed una “neo-
idealista” (p.143) secondo cui la nostra coscienza individuale è “una scintilla
o un riflesso” di una “coscienza completa e senza fine” che “è sempre dentro e
attorno a noi” (p. 78), una coscienza assoluta e universale che “viene prima
del cervello” e “anche prima dell’universo” (p. 79). Soprattutto in questa
seconda versione del fronte non-riduzionista, le più eclatanti conseguenze sul
versante antropologico sono due: ognuno/a di noi è interconnesso “al Tutto:
passato, presente, futuro” (p. 85) e “morire non sarebbe altro che
«risvegliarsi a un’altra coscienza più vasta»” (p. 79).
L’interconnessione – che è un dato
ontologico – dovrebbe essere assunta come “legge morale” (Fox a p. 108) dalla
nostra specie che si è evoluta per “competizione” (che è “un fatto della vita”)
ma ancor più per “cooperazione” (che ne rappresenta “l’essenza”, Tudge a p.
111). Ma la cultura ebraico-cristiana, con la sua lettura antropocentrica, ha
spezzato la comunione dell’essere umano con il resto della natura e ha
privilegiato una lettura gnosticheggiante, caratterizzata dal dualismo fra
l’anima e la materia (desacralizzata e ridotta a mero materiale a disposizione
della tecnica). Il “sapere per amore del sapere” cede il posto al sapere come
“potere” (p. 121) in grado di renderci “signori e padroni della natura” (così
Cartesio a p. 122).
Qualche considerazione a margine
a)
La
rinascita della metafisica nonostante i filosofi di professione
Questo libro mostra in maniera convincente una
situazione paradossale: mentre la categoria professionale dei filosofi tende,
in larga maggioranza, a evitare le tematiche metafisiche (onto-teologiche) per
dedicarsi alle filosofie “regionali” o “al genitivo” (filosofia della mente,
del linguaggio, della storia, dell’arte, della politica, del computer…), tali
tematiche vengono riproposte con sempre maggiore insistenza dal mondo degli
scienziati (soprattutto cultori di scienze “dure” come fisica e biologia). Trovo
incoraggiante questo fenomeno culturale, ma non privo di rischi. Infatti, se
per una lunga parte della mia vita ho giocato a pingpong e a un certo momento sento
il desiderio di giocare anche a tennis, avvertirò la tentazione di approcciarmi
al secondo sport (per molti versi simile al primo) con la mentalità e le
abilità acquisite giocando a pingpong. Fuor di metafora: non escludo certo che
un buon astrofisico o un buon biologo siano – o diventino – degli ottimi
metafisici, ma a patto che abbiano consapevolezza di mutare attrezzatura
epistemica. Quando la Hack o Zichichi si pronunziavano sull’ipotesi di un
Essere creatore ne avevano tutto il diritto in quanto esseri pensanti (specie
se non del tutto ignari di filosofia e di teologia): ma non in quanto fisici.
Se è vero (come sostenuto da Leibniz o da Heidegger)
che la domanda fondamentale della metafisica è “Perché c’è qualcosa anziché
nulla?” abbiamo due possibilità: o liquidarla come una domanda priva di senso
(un “bernoccolo” che la mente si procura quando va a sbattere contro un muro) o
moltiplicare i tentativi filosofici di rispondervi. La terza possibilità -
tentare e ritentare di rispondervi con i metodi delle scienze naturali - è
impresa destinata per principio a fallire.
b)
Il
supporto delle scienze alla riflessione filosofica
Gli scienziati possono solo riproporre (implicitamente,
oggettivamente, per lo più inconsapevolmente) ai filosofi le domande tipiche
della filosofia (che i filosofi tendono a tralasciare, preferendo rifugiarsi
nella ricerca storiografica e filologica, ambiti abituali del loro circuito
comunicativo)? Direi di no. Essi sono preziosi per almeno due altre ragioni.
La prima: non possono prescrivere ai filosofi cosa
dire, ma possono informarli su cosa non dire. È
vero che le scienze, come tutti i prodotti della mente umana, non sono
infallibili né definitive, ma ciò non toglie che esse sono in grado di
stabilire in maniera incontrovertibile l’erroneità di certe tesi. Claudia Fanti
sottolinea il cambio di paradigma (inaspettato) dalla fisica ‘classica’
newtoniana alla fisica einsteiniana prima e quantistica dopo. Bene! Ciò
significa che non possiamo fare affidamento assoluto su nessuna delle attuali
teorie fisiche. Ma significa anche che “può andare bene tutto” o non possiamo invece
affermare che alcune teorie del passato
sono definitivamente, irreversibilmente, false? Dal geocentrismo (tolemaico)
siamo passati all’eliocentrismo (copernicano) e poi all’attuale cosmo senza né
un centro né una circonferenza: non sappiamo che cosa scopriremo domani, ma è
ipotizzabile che ridiventiamo geocentrici? Penso che una filosofia costruita
oggi sul presupposto che il cosmo giri come un’immensa sfera intorno al nostro
pianetino microscopico (che occupa nello “sterminato universo” uno spazio
“minore di quello di un atomo nel sistema solare”, così Giudice a p. 102) sia
infondata, inattendibile, implausibile. Il relativismo ha dei limiti: forse non
siamo certi di alcuna verità, però siamo certi di alcune falsità.
Ma la scienza deve limitarsi a fare da barriera, da
argine, fissando i paletti alla creatività filosofica? Non può apportare
contributi in positivo? Secondo alcuni essa produce metafore più che concetti
inequivoci. Lo ribadisce anche il fisico Maurizio Busso nella sua Postfazione:
“In fondo, quando anche la fisica si inoltra al di là di ciò che è noto, i
ricercatori riscoprono il fascino del linguaggio mitico, quello che usavano i
nostri antenati prima delle vere formulazioni scientifiche” (p. 149).
Ritengo quindi - passo ad un secondo servizio che il
mondo degli scienziati può rendere al mondo dei filosofi - che la scienza può
prestare ai filosofi delle metafore, delle immagini poetiche, che possono
aiutarli ad esprimere l’indefinibile. È almeno da
Platone in poi che la filosofia ricorre alle metafore: il punto è che Platone
era il primo ad avvertire quando proponeva ragionamenti logici dimostrativi e
quando ricorreva a miti, a belle favole suggestive capaci più di alludere che
di mostrare. Allora, ad esempio, mi pare molto bello ricorrere alla nozione di entanglement
per indicare una connessione fra enti ed eventi nel cosmo, ma non perderei la
lucidità di distinguere i campi in cui si tratta di una descrizione empirica
(il mondo delle particelle microscopiche) e dove si tratta di una metafora
poetica (il mondo della fisica classica).
c)
L’antropocentrismo
e le sue caricature
Il termine antropocentrismo ritorna più volte nel
libro in varie accezioni che non mi sembrano equivalenti e intercambiabili. Un
primo significato è onto-cosmologico: l’essere umano è il fine dell’universo
che solo con la sua comparsa (avvenuta dopo circa tredici miliardi di anni dall’inizio
di questo universo) acquista senso, anzi addirittura prende coscienza di sé e
trova per così dire un interprete/portavoce.
Chi rifiuti questa prima accezione forte (anzi
forzuta) di antropocentrismo non è obbligato a ritenere l’essere umano privo di
specificità rispetto agli altri esseri (viventi o minerali): soprattutto di
autocoscienza. Lo slittamento concettuale è trasformare un dato peculiare in
sintomo di supremazia: se ho un’autocoscienza che non ha (o non ha nella stessa
misura) una gazzella, non vuol dire che le sia superiore o (per mantenere la
metafora astronomica tolemaica) che essa debba girare intorno a me per ricevere
luce e calore (cioè, fuor di metafora, senso e valore). L’autocoscienza mi
rende tanto più potente quanto più pericoloso fra gli altri animali (per cui
corro il rischio – che non corre la gazzella - di comportarmi in maniera
irresponsabile). Le graduatorie sono relative all’unità di misura sulla cui
base si costruiscono: se invece dell’autocoscienza scegliessimo la longevità o
la forza fisica o la resilienza in volo…
C’è una seconda accezione del termine
antropocentrismo: l’essere umano come osservatore che inevitabilmente modifica
l’oggetto dell’osservazione o addirittura lo presentifica, gli conferisce
consistenza reale. Qui siamo al di là del più ardito antropocentrismo: siamo in
quell’antropo-teismo di cui l’idealismo post-kantiano tedesco
(paradigmaticamente con Fichte a cavallo fra Settecento e Ottocento) ci ha dato
l’esemplare insuperabile. Rileggiamo una poesiola ironica riportata da Bertrand
Russell su Berkeley (il predecessore di Fichte, coniatore del principio esse
est percipi = essere è essere percepito):
Si stupiva un dì un allocco
“Certo Dio trova assai sciocco
che quel pino ancora esista
se non c’è nessuno in vista”
RISPOSTA
“Molto sciocco, mio signore,
è soltanto il tuo stupore.
Tu non hai pensato che
se quel pino sempre c’è
è perché lo guardo io.
Ti saluto. Sono Dio”
Dietro la forma simpaticamente umoristica leggerei la
tragica paradossalità della prospettiva idealistica: le cose esistono perché io
le penso; ma ciò è vero se in me opera il pensiero di un Altro; dunque, alla
fine, sono solo un canale, un medium, non un soggetto che pensa.
L’antropo-teismo si risolve in irrilevanza dell’essere umano, organo che il
Pensiero assoluto può sostituire senza difficoltà da un momento all’altro della
storia.
Contro l’idealismo “magico” mi pare dunque essenziale
tenersi fermi sulle posizioni (filosofiche!) di quella maggioranza di fisici
attuali per i quali ciò che vale per il microcosmo (ad esempio il principio di
indeterminazione di Heisenberg, secondo cui l’osservatore modifica - per il
solo fatto di osservarli - i fenomeni) non vale per il macrocosmo (e con
Troisi, in una scena cinematografica celebre , possiamo rivolgerci per anni
all’immagine di un santo senza modificare di un millimetro il mondo esterno).
C’è infine una terza accezione del termine
antropocentrismo: l’accezione gnoseologica secondo cui io vedo della Totalità
solo ciò che le mie categorie (sensoriali e concettuali) mi consentono. A me
pare che si tratti di un’accezione alquanto ovvia, se non banale, ma non
capisco perché non se ne muti il termine in antropo-decentrismo. Essa infatti
ci dice la parzialità, la limitatezza, la perifericità conoscitiva di noi
uomini, del tutto analoga alla parzialità, alla limitatezza e alla perifericità
della mosca o della lince che colgono lo stesso mondo con categorie differenti
dalle nostre (e da noi quasi del tutto ignote). Possiamo uscire dalla gabbia di
questo pseudo-antropocentrismo (che è in realtà un antropo-morfismo o un antropo-decentrismo)?
Propenderei per rispondere: no (sino a quando ci limitiamo alla conoscenza
sensoriale e scientifica) e sì (nei rari casi in cui potessimo attingere a dei
principi ontologici, meta-fisici e meta-scientifici). Se dico che è impossibile
che uno stesso ente sia e non sia nello stesso tempo e dallo stesso punto di
vista sto affermando qualcosa di soggettivo (o di valido inter-soggettivamente
solo per la specie umana) o di assoluto? Non entro nella questione e per questo
ho usato il congiuntivo ‘potessimo’ evitando l’indicativo (affermativo)
‘possiamo’.
d)
L’ «io»
fra autopercezione psicologica e
situazione ontologica
Tra le esperienze più gratificanti all’interno delle
nuove prospettive scientifiche e filosofiche l’Autrice indica “quella potente
sensazione di connessione e unità sperimentata in maniera diretta, come realtà
più reale della vita quotidiana” in vari stati d’animo, “quando si coglie tutta
l’illusorietà della distinzione tra esterno e interno, tra sé e l’altro, tra
l’io e il cosmo” (p. 130). Che una simile esperienza possa essere effettiva, e
causa “di gioia e di indescrivibile amore” (p. 131), non c’è dubbio. Ma le
“sensazioni”, per quanto intime, sono rivelatrice di uno stato di cose
oggettivo? O dobbiamo avere dei criteri esterni ai nostri stati d’animo? Può
darsi che se prego ogni giorno la Madonna provi una profonda sensazione di
comunione con Lei: ciò mi è sufficiente per dire che la Madonna sia ancora viva
come in Palestina duemila anni fa, anzi ancor più viva di allora, e sia
consapevole di essere in relazione amorevole con me?
Naturalmente ci sono persone nel mondo (direi la
maggioranza assoluta) che, ritenendo impossibile attingere a criteri esterni ai
nostri stati d’animo, scelgono di orientare la propria vita sulla base
esclusiva di ciò che li fa sentire meglio, più in pace con sé stessi e in
armonia con il resto del mondo. Altre persone siamo segnati dalla maledizione
filosofica di non accontentarci di ciò che ci soddisfa psicologicamente e di
cercare (forse invano) di procedere al contrario: provare prima a capire come stanno
le cose ‘oggettivamente’ e poi ad adeguare allo scenario ritenuto (almeno sino
a prova contraria) ‘vero’ la propria postura esistenziale e psicologica. Dunque
non riteniamo vero ciò che ci fa stare bene, ma tentiamo di stare bene al
cospetto di ciò che riteniamo vero, pur non essendo granché entusiasmante.
(“Adista/Documenti”, 2025, 39, 8 novembre)
[1] Cfr. A. Cavadi, Voglio una vita spregiudicata. La
filosofia come spiritualità per chi ritiene di non averne alcuna , Diogene
Multimedia, Bologna 2020 e i volumi della Collana Oltre le religioni,
Gabrielli Editori (San Pietro in Cariano), di cui proprio Claudia Fanti è
co-curatrice con vari autori.
[2] Un po’ più su
queste riflessioni di S. Kaufmann nel capitolo “Il sacro fuori dal tempio” del
mio O religione o ateismo? La spiritualità ‘laica’ come fondamento comune,
Algra Editore, Viagrande 2021 (pp. 59 – 66).
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